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Trascrizione

§ Intellettuali. Noterelle di cultura inglese. Guido Ferrando nel «Marzocco» del 4 ottobre 1931 pubblica un articolo Educazione e Colonie da cui traggo alcuni spunti. Il Ferrando ha assistito a un grande convegno «The British Common wealth Education Conference» a cui parteciparono centinaia d’insegnanti di ogni grado, dai maestri elementari a professori universitari, provenienti da tutte le parti dell’Impero, dal Canadà e dall’India, dal Sud Africa e dall’Australia, dal Kenja e dalla Nuova Zelanda, e che ebbe luogo a Londra alla fine di luglio. Il Congresso si propose di discutere i vari aspetti del problema educativo «in a changing Empire», in un impero in trasformazione; erano presenti vari ben noti educatori degli Stati Uniti. Uno dei temi fondamentali del Congresso era quello dell’interracial understanding, del come promuovere e sviluppare una migliore intesa tra le diverse razze, specialmente tra gli europei colonizzatori e gli africani e asiatici colonizzati. «Era interessante vedere con quanta franchezza e quanto acume dialettico, i rappresentanti dell’India rimproverassero agli inglesi la loro incomprensione dell’anima indiana, che si rivela, per esempio, in quel senso quasi di disgusto, in quell’attitudine di sprezzante superiorità che la maggioranza del popolo britannico ha ancor oggi verso gli indiani, e che perfino durante la guerra spingeva gli ufficiali inglesi ad allontanarsi da tavola e a lasciar la stanza quando entrava un ufficiale indiano».

Tra i tanti temi discussi fu quello della lingua. Si trattava cioè di decidere se fosse opportuno insegnare anche alle popolazioni semiselvagge dell’Africa a leggere prendendo per base l’inglese anziché il loro idioma nativo, se fosse meglio mantenere il bilinguismo o tendere, per mezzo dell’istruzione, a far scomparire la lingua indigena. Ormsby Gore, ex sottosegretario alle colonie, sostenne che era un errore il tentare di snaturalizzare le tribù africane e si dichiarò favorevole ad una educazione tendente a dare agli africani il senso della propria dignità di popolo e la capacità di governarsi da sé. Nel dibattito che seguì la comunicazione dell’Ormsby «mi colpirono le brevi dichiarazioni di un africano, credo che fosse uno zulù, il quale tenne ad affermare che i suoi, diciamo così, connazionali, non avevano alcuna voglia di diventar europei; si sentiva nelle sue parole una punta di nazionalismo, un leggero senso di orgoglio di razza».

«Non vogliamo esser inglesi»: a questo grido che prorompeva spontaneo dal petto dei rappresentanti degli indigeni delle colonie britanniche dell’Africa e dell’Asia, faceva eco l’altro grido dei rappresentanti dei Dominions: «Non ci sentiamo inglesi». Australiani e canadesi, cittadini della Nuova Zelanda e dell’Africa del Sud erano tutti concordi nell’affermare questa loro indipendenza non solo politica, ma anche spirituale. Il prof. Cillie, preside della facoltà di lettere in una università sudafricana, aveva argutamente osservato che l’Inghilterra, tradizionalista e conservatrice, viveva nello ieri, mentre essi, i sud-africani, vivevano nel domani.