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Trascrizione

§ 2. Origini del Risorgimento. Le ricerche sulle origini del moto nazionale del Risorgimento sono quasi sempre viziate dalla tendenziosità politica immediata, non solo da parte degli scrittori italiani, ma anche da parte di quelli stranieri, specialmente francesi. C’è una «dottrina» francese sulle origini del Risorgimento, cioè la nazione italiana deve la sua fortuna alla Francia, ai due Napoleoni e questa dottrina ha anche il suo aspetto negativo-polemico: i nazionalisti monarchici (Bainville) rimproverano ai Napoleoni di avere indebolito la posizione relativa della Francia in Europa con la loro politica nazionalitaria, cioè di essere stati contro la tradizione e gli interessi della nazione francese, rappresentati dalla monarchia e dai partiti di destra (clericali) sempre antitaliani.

*In Italia le quistioni «tendenziali e tendenziose» poste a questo proposito sono: 1) la tesi democratico-francofila: il moto è dovuto alla Rivoluzione francese, ne è una derivazione, che ha determinato l’opposta tesi: 2) la Rivoluzione francese col suo intervento nella penisola ha interrotto il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un doppio aspetto: quello gesuitico (per cui i sanfedisti erano «nazionalisti») e quello moderato che si riferisce piuttosto ai principi riformatori. Qualcuno poi aggiunge: 3) il movimento riformatore era stato interrotto per la paura degli avvenimenti di Francia, quindi l’intervento degli eserciti francesi in Italia non interruppe il movimento indigeno ma anzi ne rese possibile la ripresa e il compimento*.

Questi elementi si trovano svolti in quelle pubblicazioni a cui si è accennato sotto la rubrica di «Interpretazioni del Risorgimento italiano» e che, come si è detto, hanno significato nella storia della cultura politica e non della storiografia.

*In un articolo di Gioacchino Volpe, Una scuola per la storia dell’Italia moderna («Corriere della Sera», 9 gennaio 1932) assai notevole, è scritto: «Tutti lo sanno: per capire il “Risorgimento” non basta spingersi al 1815 e neppure al 1796, l’anno in cui Napoleone irruppe nella Penisola e vi suscitò la tempesta. Il “Risorgimento”, come ripresa di vita italiana, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali, come sensibilità a certe esigenze ideali, bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è anche esso sintomo, uno dei sintomi, di una rivoluzione in marcia, non solo francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno che la storia del Risorgimento non si studia solo coi documenti italiani e come fatto solamente italiano, ma nel quadro della vita europea; trattisi di correnti di cultura, di trasformazioni economiche, di situazioni internazionali nuove, che sollecitano gli italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto politico»*.

Tutto ciò nel libro dell’Omodeo rimane sconnesso ed esteriore. Si ha l’impressione che sia per il titolo, che per l’impostazione cronologica, il libro dell’Omodeo abbia solo voluto fare omaggio alla tendenziosità storica e non alla storia, per ragioni di opportunismo poco chiare e poco lodevoli.

Nel Settecento, mutate le condizioni relative della penisola italiana nel quadro dei rapporti europei, sia per ciò che riguarda la pressione egemonica delle grandi potenze che non potevano permettere il sorgere di uno Stato unitario italiano, sia per ciò che riguarda la posizione di potenza politica (in Italia) e culturale (in Europa) del Papato (e tanto meno le grandi potenze europee potevano permettere uno Stato unificato italiano sotto la supremazia del Papa, cioè permettere che la funzione culturale della Chiesa e la sua diplomazia, già abbastanza ingombranti e limitative del potere statale nei paesi cattolici, si rafforzassero appoggiandosi a un grande Stato territoriale e ad un esercito corrispondente), muta anche l’importanza e il significato della tradizione letterario-retorica esaltante il passato romano, la gloria dei comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato italiano. Questa atmosfera culturale italiana finora era rimasta indistinta e generica: essa giovava specialmente al Papato, formava il terreno ideologico della potenza papale nel mondo, l’elemento per la selezione del personale ecclesiastico e laico-ecclesiastico di cui il Papato aveva bisogno per la sua organizzazione pratica di centralizzazione dell’organismo ecclesiastico, e per tutto l’insieme delle attività politiche, filosofiche, giuridiche, pubblicistiche, culturali, che costituiva la macchina per l’esercizio del «potere indiretto», dopo che nel periodo precedente alla Riforma, era servito all’esercizio del potere diretto, o di quelle funzioni di potere diretto che poterono concretamente attuarsi nei rapporti di forza interni di ogni singolo paese cattolico.

Nel Settecento si inizia un processo di distinzione in questa corrente tradizionale: una parte sempre più coscientemente si connette con l’istituto del Papato come espressione di una funzione intellettuale (etico-politica di egemonia) dell’Italia nel mondo civile, e finirà con l’esprimere il Primato giobertiano e il neoguelfismo (attraverso una serie di movimenti minori, più o meno equivoci, come il sanfedismo, che sono esaminati nella rubrica dell’«Azione Cattolica» e le sue origini) e con il concretarsi in forma organica, sotto la direzione dello stesso Papato, nel movimento di Azione Cattolica, in cui la funzione dell’Italia come nazione è ridotta al minimo (all’opposto di quella parte del personale centrale vaticano che è italiano, ma non può mettere in prima linea, come una volta, il suo essere italiano); e si sviluppa una parte «laica», anzi in opposizione al Papato, che cerca rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato. Questa seconda parte, che non può riferirsi a un organismo ancora così potente come la Chiesa romana, e manca pertanto di un punto di riferimento centralizzatore, non ha la stessa compattezza del primo, ha varie linee spezzate di sviluppo e si può dire confluisca nel mazzinianismo. Ma ciò che è importante storicamente è che nel Settecento questa tradizione incominci a concretarsi e a distinguersi, a muoversi con dialettica intima: significa che questa tradizione letterario-rettorica sta diventando un elemento politico, sta diventando il suscitare del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere i fini loro proprii, riusciranno a mettere in iscacco e il Papato stesso e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato. Che il liberalismo sia riuscito a creare la forza cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico cattolico e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano. (Se questo elemento della trasformazione della tradizione culturale italiana lo si pone come elemento necessario nello studio delle origini del Risorgimento, e il suo disfacimento è concepito come fatto positivo, come condizione necessaria per il sorgere e lo svilupparsi dell’elemento positivo liberale-nazionale, allora acquistano un certo significato, non trascurabile, movimenti come quello «giansenistico», che altrimenti apparirebbero come mere curiosità da eruditi. Si tratterebbe insomma di uno studio dei «corpi catalitici» nel campo storico-politico italiano, elementi catalitici che non lasciano traccia di sé, ma hanno avuto una insostituibile funzione strumentale nel creare il nuovo organismo storico).