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Trascrizione

§ Le origini «nazionali» dello storicismo crociano. È da ricercare cosa significa esattamente e come è giustificata in Edgar Quinet la formula dell’equivalenza di rivoluzione-restaurazione nella storia italiana. Secondo Daniele Mattalia (Gioberti in Carducci nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931) la formula del Quinet sarebbe stata adottata dal Carducci attraverso il concetto giobertiano di «classicità nazionale» (Rinnovamento, ediz. Laterza, III, 88; Primato, ed. Utet, 1, 5, 6, 7,...). È da vedere se la formula del Quinet può essere avvicinata a quella di «rivoluzione passiva» del Cuoco; esse forse esprimono il fatto storico dell’assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della storia italiana e l’altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, disorganico delle masse popolari con «restaurazioni» che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni-restaurazioni» o anche «rivoluzioni passive». Si potrebbe dire che si è sempre trattato di rivoluzioni dell’«uomo del Guicciardini» (nel senso desanctisiano), in cui i dirigenti hanno sempre salvato il loro «particulare»: il Cavour avrebbe appunto «diplomatizzato» la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini ed egli stesso si avvicinava come tipo al Guicciardini.

Lo storicismo del Croce sarebbe quindi niente altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d’azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico, risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione. Nel linguaggio moderno questa concezione si chiama riformismo. Il contemperamento di conservazione e di innovazione costituisce appunto il «classicismo nazionale» del Gioberti, così come costituisce il classicismo letterario e artistico dell’ultima estetica crociana. Ma questo storicismo da moderati e da riformisti non è per nulla una teoria scientifica, il «vero» storicismo; è solo il riflesso di una tendenza pratico-politica, una ideologia nel senso deteriore. Infatti perché la «conservazione» deve essere proprio quella data «conservazione», quel dato elemento del passato? E perché si deve essere «irrazionalisti» e «antistoricisti» se non si conserva proprio quel determinato elemento? In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva il passato superandolo, è anche vero che il passato è cosa complessa, un complesso di vivo e di morto, in cui la scelta non può essere fatta arbitrariamente, a priori, da un individuo o da una corrente politica. Se la scelta è stata fatta in tal modo (sulla carta) non può trattarsi di storicismo ma di un atto di volontà arbitrario, del manifestarsi di una tendenza pratico-politica, unilaterale, che non può dare fondamento a una scienza, ma solo a una ideologia politica immediata. Ciò che del passato verrà conservato nel processo dialettico non può essere determinato a priori, ma risulterà dal processo stesso, avrà un carattere di necessità storica e non di scelta arbitraria da parte dei così detti scienziati e filosofi. E intanto è da osservare che la forza innovatrice, in quanto essa stessa non è un fatto arbitrario, non può non essere già immanente nel passato, non può non essere in un certo senso essa stessa il passato, un elemento del passato, ciò che del passato è vivo e in isviluppo, è essa stessa conservazione-innovazione, contiene in sé l’intero passato, degno di svolgersi e perpetuarsi. Per questa specie di storicisti moderati (e si intende moderati in senso politico, di classe, cioè di quelle classi che operarono nella restaurazione dopo il 1815 e il 1848) irrazionale era il giacobinismo, antistoria era uguale a giacobinismo. Ma chi potrà mai provare storicamente che i giacobini siano stati guidati solo dall’arbitrio? E non è ormai una proposizione storica banale che né Napoleone né la Restaurazione hanno distrutto i «fatti compiuti» dai giacobini? O forse l’antistoricismo dei giacobini sarà consistito in ciò che delle loro iniziative non si è «conservato» il 100%, ma solo una certa percentuale? Non pare che ciò sia plausibile da sostenersi, perché la storia non si ricostruisce con calcoli matematici e d’altronde nessuna forza innovatrice si realizza immediatamente, ma appunto è sempre razionalità e irrazionalità, arbitrio e necessità, è «vita», cioè, con tutte le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue antitesi.

Fissare bene questo rapporto dello storicismo del Croce con la tradizione moderata del Risorgimento e col pensiero reazionario della Restaurazione. Osservare come la sua concezione della «dialettica» hegeliana abbia privato questa di ogni vigore e di ogni grandezza, rendendola una quistione scolastica di parole. Il Croce ripete oggi la funzione del Gioberti e a questi si applica la critica contenuta nella Miseria della filosofia sul modo di non comprendere l’hegelismo. E tuttavia questo dello «storicismo» è uno dei punti e dei motivi permanenti in tutta l’attività intellettuale e filosofica del Croce e una delle ragioni della fortuna e dell’influsso esercitato dalla sua attività da trent’anni. In realtà il Croce si inserisce nella tradizione culturale del nuovo Stato italiano e riporta la cultura nazionale alle origini sprovincializzandola e depurandola di tutte le scorie magniloquenti e bizzarre del Risorgimento. Stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo crociano significa appunto ridurlo alla sua reale portata di ideologia politica immediata, spogliandolo della grandezza brillante che gli viene attribuita come di manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una disinteressata contemplazione dell’eterno divenire della storia umana.