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Trascrizione

§ Sorel, Proudhon, De Man. (Cfr. p. 78). La «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 ha pubblicato un lungo (da p. 289 a p. 307) saggio di Giorgio Sorel col titolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito). Si tratta di uno scritto del 1920, che doveva servire di prefazione a una raccolta di articoli pubblicati dal Sorel in giornali italiani dal 1910 al 1920 (raccolta che è stata pubblicata dalla Casa Ed. «Corbaccio» di Milano, a cura di Mario Missiroli col titolo L’Europa sotto la tormenta, forse con criteri molto diversi da quelli che sarebbero stati applicati nel 1920 quando la prefazione fu scritta: sarebbe utile vedere se nel volume sono riprodotti alcuni articoli come quello dedicato alla Fiat e qualche altro). Il ritardo nella pubblicazione del libro non è indipendente dalle oscillazioni che in Italia ha avuto la rinomanza del Sorel, dovuta a una serie di equivoci più o meno disinteressati, e che oggi è scaduta di molto: esiste già una letteratura antisorelliana.

Il saggio pubblicato dalla «Nuova Antologia» riassume tutti i pregi e tutte le manchevolezze del Sorel: è tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, sibillino, ecc.; ma dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati eppur veri, obbliga a pensare e ad approfondire.

Qual è il significato di questo saggio? Esso risulta chiaramente da tutto l’articolo, che fu scritto nel 1920, ed è una patente falsificazione la noticina introduttiva della «Nuova Antologia» (dovuta forse allo stesso Missiroli, della cui lealtà intellettuale è bene non fidarsi) che conclude con queste parole: «... uno scrittore, che assegnò all’Italia del dopoguerra il primato intellettuale e politico in Europa». A quale Italia? Qualcosa in proposito potrebbe dire esplicitamente il Missiroli o si potrebbe trovare nelle lettere private del Sorel al Missiroli (lettere che dovrebbero essere pubblicate, secondo che è stato annunziato, ma non lo saranno o lo saranno non integre), ma si può arguire da numerosi articoli del Sorel. Da questo saggio è utile, pro-memoria, annotare alcuni spunti, ricordando che tutto il saggio è molto importante per comprendere Sorel e il suo atteggiamento nel dopoguerra:

a) Bernstein ha sostenuto (Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, trad. francese, pp. 53-54) che un rispetto superstizioso per la dialettica hegeliana ha condotto Marx a preferire alle costruzioni degli utopisti tesi rivoluzionarie assai prossime a quelle della tradizione giacobina, babeuvista o blanquista; non si comprende allora, però, come mai nel Manifesto non si parli della letteratura babeuvista che Marx indubbiamente conosceva. L’Andler è del parere (vol. II della sua ediz. del Manifesto, p. 191) che Marx faccia un’allusione piena di disprezzo per la congiura degli Uguali, quando parla dell’ascetismo universale e grossolano che si riscontra nelle più antiche rivendicazioni proletarie dopo la Rivoluzione Francese.

b) Pare che Marx non si sia mai potuto liberare completamente dall’idea hegeliana della storia, secondo la quale diverse ere si succedono nell’umanità, seguendo l’ordine di sviluppo dello spirito, che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Alla dottrina del suo maestro egli aggiunge quella della lotta di classe: sebbene gli uomini non conoscano che le guerre sociali, nelle quali sono spinti dai loro antagonismi economici, essi cooperano inconsciamente a un’opera che il solo metafisico suppone. Questa ipotesi del Sorel è molto azzardata ed egli non la giustifica: ma evidentemente gli sta molto a cuore, sia per la sua esaltazione della Russia, sia per la sua previsione della funzione civile dell’Italia (è da segnalare, a proposito di questo avvicinamento Russia-Italia, l’atteggiamento di D’Annunzio, in un tempo quasi coincidente, nei manoscritti fatti circolare nella primavera del 1920; conobbe il Sorel questo atteggiamento dannunziano? Solo il Missiroli potrebbe dare una risposta). Secondo il Sorel «Marx aveva una così grande fiducia nella subordinazione della storia alle leggi dello sviluppo dello Spirito, che ha insegnato che, dopo la caduta del capitalismo, l’evoluzione verso il Comunismo perfetto si produrrebbe senza essere provocata da una lotta di classi (Lettera sul programma di Gotha). Sembra che Marx abbia creduto, come Hegel, che i diversi momenti dell’evoluzione si manifestino in paesi diversi, ciascuno dei quali è specialmente adatto a ciascuno di quei momenti (vedere la prefazione del 21 gennaio 1882 a una traduzione russa del Manifesto). Egli non ha mai fatto una esposizione esplicita della sua dottrina; così molti marxisti sono persuasi che tutte le fasi dell’evoluzione capitalista devono prodursi nella stessa forma, presso tutti i popoli moderni. Questi marxisti sono troppo poco hegeliani».

c) La quistione: prima o dopo il 48? Il Sorel non intende il significato di questo problema, nonostante la letteratura in proposito (sia pure letteratura da bancarella) e accenna al «curioso» (sic) cambiamento che si produsse nello spirito di Marx alla fine del 1850: nel marzo egli aveva firmato un manifesto dei rivoluzionari rifugiati a Londra, nel quale era tracciato il programma di una agitazione rivoluzionaria da intraprendersi in vista di un nuovo prossimo sconvolgimento sociale, che Bernstein trova degno del primo venuto dei rivoluzionari da club (Socialismo teorico ecc. p. 51), mentre poi egli si convinse che la rivoluzione nata dalla crisi del 47 finiva con quella crisi. Ora gli anni dopo il 48 furono di una prosperità senza uguali: mancava dunque per la rivoluzione progettata la prima delle condizioni necessarie: un proletariato ridotto all’ozio e disposto a combattere (cfr. Andler, I, pp. 55-56, ma di quale edizione?) Così sarebbe nata nei marxisti la concezione della miseria crescente, che avrebbe dovuto servire a spaventare gli operai e indurli a combattere in vista di un peggioramento probabile anche in una situazione prospera (spiegazione infantile e contraddetta dai fatti, anche se è vero che della teoria della miseria crescente è stato fatto uno strumento di tal genere, un argomento di immediata persuasione: e del resto si trattò di un arbitrio? Sul tempo in cui nacque la teoria della miseria crescente è da vedere la pubblicazione di Roberto Michels). d) Su Proudhon: «Proudhon apparteneva a quella parte della borghesia che era più vicina al proletariato; per questo i marxisti hanno potuto accusarlo di essere un borghese, mentre gli scrittori più sagaci lo considerano come un ammirevole prototipo dei nostri (cioè, francesi) contadini e dei nostri artigiani (cfr. Daniele Halévy nei “Débats” del 3 gennaio 1913)». Questo giudizio del Sorel si può accettare. Ed ecco come il Sorel spiega la mentalità «giuridica» del Proudhon: «In ragione della modicità delle loro risorse, i contadini, i proprietari delle più piccole fabbriche, i piccoli commercianti sono obbligati a difendere aspramente i loro interessi davanti ai tribunali. Un socialismo che si proponga di proteggere i ceti posti sui gradini più bassi dell’economia, è naturalmente destinato a dare una grande importanza alla sicurezza del diritto; e una tendenza siffatta è particolarmente forte presso quegli scrittori che, come Proudhon, hanno la testa piena di ricordi della vita campagnola». E dà ancora altri spunti per rinforzare questa analisi, che non persuade del tutto: la mentalità giuridica del Proudhon è legata al suo antigiacobinismo, ai ricordi letterari della Rivoluzione francese e dell’antico regime che si suppone abbia portato all’esplosione giacobina proprio per l’arbitrarietà della giustizia: la mentalità giuridica è la sostanza del riformismo piccolo borghese del Proudhon e le sue origini sociali hanno contribuito a formarla per altro e «più alto» nesso di concetti e di sentimenti: in questa analisi il Sorel si confonde con la mentalità degli «ortodossi» da lui tanto spregiati. Lo strano è che il Sorel, avendo una tale convinzione sulla tendenza sociale del Proudhon, lo esalti e talvolta lo proponga a modello o fonte di principii per il proletariato moderno; se la mentalità giuridica del Proudhon ha questa origine perché gli operai dovrebbero occuparsi della quistione di un «nuovo diritto», di una «sicurezza del diritto» ecc.?

A questo punto, si ha l’impressione che il saggio del Sorel sia stato mutilato e che manchi precisamente una parte, riguardante il movimento italiano delle fabbriche: dal testo pubblicato, è possibile immaginare che Sorel abbia trovato nel movimento delle commissioni interne rivolte a controllare i regolamenti di fabbrica e in generale la «legislazione» interna di fabbrica che dipendeva unicamente dall’arbitrio incontrollato degli imprenditori, il corrispettivo delle esigenze che Proudhon rifletteva per i contadini e gli artigiani. Il saggio, così come è pubblicato, è incoerente e incompleto; la sua conclusione, riguardante l’Italia («Molte ragioni mi avevano condotto, da gran tempo, a supporre, che quello che un hegeliano chiamerebbe il Weltgeist, spetta oggi all’Italia. Grazie all’Italia, la luce dei tempi nuovi non si spegnerà») non ha nessuna dimostrazione, sia pure per scorci e accenni, al modo del Sorel. Nell’ultima nota c’è un accenno ai consigli degli operai e contadini in Germania, «che io consideravo conformi allo spirito proudhoniano» e un rimando ai Materiali per una teoria ecc. (pp. 164 e 394). Sarebbe interessante sapere se veramente il saggio è stato mutilato e da chi: se direttamente dal Missiroli o da altri.

Nota I. Non si può comprendere il Sorel come figura di «intellettuale rivoluzionario» se non si pensa alla Francia di dopo il 70, come non si può comprendere il Proudhon senza il «panico antigiacobino» dell’epoca della Restaurazione. Il 70 e il 71 videro in Francia due terribili disfatte, quella nazionale, che pesò sugli intellettuali borghesi e la disfatta popolare della Comune che pesò sugli intellettuali rivoluzionari: la prima creò dei tipi come Clémenceau, quintessenza del giacobinismo nazionalista francese, la seconda creò l’antigiacobino Sorel e il movimento sindacalista «antipolitico». Il curioso antigiacobinismo francese del Sorel, settario meschino, antistorico, è una conseguenza del salasso popolare del 71 (è da vedere in proposito la Lettre à M. Daniel Halévy nel «Mouvement socialiste», 16 agosto e 15 settembre 1907); da esso viene una curiosa luce per le sue Riflessioni sulla violenza. Il salasso del 71 tagliò il cordone ombelicale tra il «nuovo popolo» e la tradizione del 93: Sorel avrebbe voluto essere il rappresentante di questa rottura tra popolo e giacobinismo storico, ma non gli riuscì.

Nota II. Gli scritti del Sorel del dopoguerra hanno una certa importanza per la storia della cultura occidentale. Il Sorel attribuisce al pensiero di Proudhon tutta una serie di istituzioni e di atteggiamenti ideologici di questo periodo. Perché il Sorel ha potuto far questo? È assolutamente arbitrario questo suo giudizio? E data l’acutezza del Sorel come storico delle idee, che esclude, almeno in gran parte, una tale arbitrarietà, da quali esperienze culturali è partito il Sorel, e non è tutto ciò importante per un giudizio complessivo dell’opera sorelliana? È certo che occorre ristudiare Sorel, per cogliere al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero da ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che in esso è più essenziale e permanente. Occorre tener presente che si è esagerato molto sull’«austerità» e «serietà» morale e intellettuale del Sorel; dall’epistolario col Croce risulta che egli non sempre vinceva gli stimoli della vanità: ciò risulta, per es., dal tono impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (titubante e sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con gli elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c’era molto dilettantismo, molto «non impegnarsi mai a fondo», quindi molta intrinseca irresponsabilità negli atteggiamenti «politici» del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «culturali-politici», «intellettuali-politici», «au dessus de la mêlée»: anche al Sorel si potrebbero muovere molte accuse simili a quelle contenute nell’opuscolo di un suo discepolo, I misfatti degli intellettuali. Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare, con una analisi accurata, ciò che vi è nelle sue opere di superficiale, di brillante, di accessorio, legato alle contingenze della polemica estemporanea, e ciò che vi è di «polposo» e sostanzioso, per farlo entrare, così definito, nel circolo della cultura moderna.

Nota III. Nel 1929, dopo la pubblicazione di una lettera in cui Sorel parlava di Oberdan, si moltiplicarono gli articoli di protesta per alcune espressioni usate dal Sorel nelle sue lettere al Croce e il Sorel fu «stroncato» (particolarmente violento un articolo di Arturo Stanghellini riportato nell’«Italia Letteraria» di quei giorni). L’epistolario fu interrotto nel numero successivo della «Critica» e ripreso, senza accenno alcuno all’incidente, ma con alcune novità: parecchi nomi furono pubblicati solo con le iniziali e si ebbe l’impressione che alcune lettere non siano state pubblicate o siano state espurgate. Da questo punto incomincia nel giornalismo una valutazione nuova del Sorel e dei suoi rapporti con l’Italia.

Per certi rispetti al Sorel si può accostare il De Man, ma quale differenza tra i due! Il De Man si imbroglia assurdamente nella storia delle idee e si lascia abbagliare dalle superficiali apparenze; se un appunto si può invece muovere al Sorel è proprio in senso contrario, di analizzare troppo minutamente il sostanziale delle idee e di perdere spesso il senso delle proporzioni. Il Sorel trova che una serie di avvenimenti del dopoguerra sono di carattere proudhoniano; il Croce trova che il De Man segna un ritorno al Proudhon, ma il De Man tipicamente non capisce gli avvenimenti del dopoguerra indicati dal Sorel. Per il Sorel è proudhoniano ciò che è «spontanea» creazione del popolo, è «ortodosso» ciò che è di origine burocratica, perché egli ha sempre dinanzi come ossessioni, da una parte la burocrazia dell’organizzazione tedesca e dall’altra il giacobinismo, ambedue fenomeni di centralizzazione meccanica con le leve di comando in mano a una banda di funzionari. Il De Man rimane, in realtà, un esemplare pedantesco della burocrazia laburista belga: tutto è pedantesco in lui, anche l’entusiasmo. Crede di aver fatto scoperte grandiose, perché ripete con un formulario «scientifico» la descrizione di una serie di fatti più o meno individuali: è una tipica manifestazione di positivismo, che raddoppia il fatto, descrivendolo e generalizzandolo in una formula e poi della formulazione del fatto fa la legge del fatto stesso. Per il Sorel, come appare dal saggio pubblicato dalla «Nuova Antologia», ciò che conta in Proudhon è l’orientamento psicologico, non già il concreto atteggiamento pratico, sul quale, in verità, il Sorel non si pronunzia esplicitamente: questo orientamento psicologico consiste nel «confondersi» coi sentimenti popolari (contadini e artigiani), che concretamente pullulano dalla situazione reale fatta al popolo dagli ordinamenti economico-statali, nel «calarsi» in essi per comprenderli ed esprimerli in forma giuridica, razionale; questa o quella interpretazione, o anche l’insieme di esse, possono essere errate, o cervellotiche, o addirittura ridicole, ma l’atteggiamento generale è il più produttivo di conseguenze pregevoli. L’atteggiamento del De Man è invece quello «scientifista»: egli si china verso il popolo non per comprenderlo disinteressatamente, ma per «teorizzare» i suoi sentimenti, per costruire scherni pseudo-scientifici; non per mettersi all’unisono ed estrarre principi giuridico-educativi, ma come lo zoologo osserva un mondo di insetti, come Maeterlinck osserva le api e le termiti.

Il De Man ha la pretesa pedantesca di porre in luce e in primo piano i così detti «valori psicologici ed etici» del movimento operaio; ma può ciò significare, come pretende il De Man, una confutazione perentoria e radicale della filosofia della prassi?. Ciò sarebbe come dire che il porre in luce il fatto che la grande maggioranza degli uomini è ancora alla fase tolemaica, significhi confutare le dottrine copernicane, o che il folclore debba sostituire la scienza. La filosofia della praxis sostiene che gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale sul terreno delle ideologie; ha forse escluso il popolo da questo modo di prender coscienza di sé? Ma è osservazione ovvia che il mondo delle ideologie è (nel suo complesso) più arretrato che non i rapporti tecnici di produzione: un negro appena giunto dall’Africa può diventare un dipendente di Ford, pur mantenendosi per molto tempo un feticista e pur rimanendo persuaso che l’antropofagia sia un modo di nutrirsi normale e giustificato. Il De Man, fatta un’inchiesta in proposito, quali conclusioni ne potrebbe trarre? Che la filosofia della praxis debba studiare oggettivamente ciò che gli uomini pensano di sé e degli altri in proposito è fuori dubbio, ma deve supinamente accettare come eterno questo modo di pensare? Non sarebbe questo il peggiore dei meccanicismi e dei fatalismi? Compito di ogni iniziativa storica è di modificare le fasi culturali precedenti, di rendere omogenea la cultura a un livello superiore del precedente ecc. In realtà la filosofia della prassi ha sempre lavorato in quel terreno che il De Man crede di aver scoperto, ma vi ha lavorato per innovare, non per conservare supinamente. La «scoperta» del De Man è un luogo comune e la sua confutazione una rimasticatura poco gustosa. Con questo «conservatorismo» si spiega il discreto successo del De Man, anche in Italia, almeno in certi ambienti (specialmente nell’ambiente crociano-revisionista e in quello cattolico). Del libro principale del De Man, Croce scrisse un annunzio nella «Critica» del 1928; il De Ruggiero scrisse una recensione nella «Critica» del 1929; la «Civiltà Cattolica» e il «Leonardo» recensioni nel 1929; G. Zibordi vi accennò nel suo libretto su Prampolini; un annunzio librario molto elogiativo ne fece la Casa Laterza per la traduzione Schiavi e lo Schiavi ne parlò come di gran cosa nella sua prefazione; articoli di adesione pubblicò «I problemi del Lavoro» che riprodusse le tesi finali non riportate nella traduzione Schiavi. L’«Italia Letteraria» dell’11 agosto 1929 ne pubblicò una recensione di Umberto Barbaro. Scrive il Barbaro: «... una critica del marxismo che, se si vale delle precedenti “revisioni” di carattere economico, in massima è fondata su di una questione tattica (sic) relativa alla psicologia delle masse operaie». «Dei molti tentativi di andare “au de là” del marxismo (il traduttore, il noto avvocato Alessandro Schiavi, modifica un po’ il titolo, in “superamento” in senso crociano e assai giustificatamente (!) per altro, poiché il De Man stesso considera la sua come una posizione in antitesi necessaria per una sintesi superiore) questo non è certamente dei più poderosi e tanto meno dei più sistematici; anche perché la critica si basa prevalentemente appunto su quella misteriosa e fuggevole, benché certo affascinante, pseudoscienza che è la psicologia. Nei riguardi del “movimento” questo libro è piuttosto disfattista e talvolta fornisce addirittura argomenti alle tendenze che vuole combattere: al fascismo per un gruppo di osservazioni sugli stati affettivi e sui “complessi” (in senso freudiano) degli operai da cui derivano idee di “gioia del lavoro” e di “artigianato” ed al comunismo e fascismo insieme per la scarsa efficacia degli argomenti in difesa della democrazia e del riformismo».

Recensione di Paolo Milano nell’«Italia che scrive» del settembre 1929. Il Milano distingue nell’opera del De Man due apporti: la massa di osservazioni psicologiche sulle fasi di sviluppo, le deviazioni, le reazioni contradditorie del movimento operaio e socialista negli anni recenti, una sagace collezione di dati e documenti sociali, insomma: l’analisi dell’evoluzione riformistica delle masse operaie da un lato e dei gruppi padronali dall’altro, secondo il Milano, è ricca e soddisfacente; e la discussione teorica da cui dovrebbe risultare il «superamento del marxismo» (esattamente, per il De Man, il «ripudio» del marxismo). Per il De Man la filosofia della prassi, nel suo fondo meccanicistica e razionalistica(!), è superata dalle indagini più recenti, che hanno assegnato alla concatenazione razionale soltanto un posto e neppure il più ragguardevole nella serie dei moventi degli atti umani. Alla reazione meccanica (!) della dialettica marxistica la scienza moderna (!) ha vittoriosamente (!) sostituito una reazione psicologica, la cui intensità non è proporzionale (?) alla causa agente. Per il Milano: «È ormai chiaro che qualunque critica alla concezione marxistica della storia porta automaticamente ad impostare il contrasto tra interpretazione materialistica e interpretazione idealistica del mondo e ad assegnare in sostanza una priorità all’essere o al conoscere». Il De Man è sfuggito a questo problema o meglio si è fermato a mezza strada, dichiarandosi per una concezione dei fatti umani come generati da «moventi psicologici» e da «complessi» sociali, cioè il De Man è influenzato dalla psicologia freudiana, soprattutto attraverso le applicazioni alle dottrine sociali, tentatane dall’Adler (forse Max Adler? e in quali scritti?). Osserva il Milano: «Si sa d’altronde che labile terreno sia la psicologia nelle indagini storiche: tanto più equivoco in ricerche del tipo di queste, di cui si parla. I fenomeni psicologici infatti si prestano ad essere volta a volta indicati come tendenze volitive o come fatti materiali; tra queste opposte interpretazioni oscilla anche il De Man ed evita quindi una presa di posizione sul punto cruciale del contrasto. Davvero psicologica piuttosto un lettore accorto giudicherà che sia l’origine dell’opera del De Man: nata da una crisi di sfiducia e dalla constatazione dell’insufficienza delle dottrine marxistiche integrali a spiegare i fenomeni che all’osservazione dell’autore si erano offerti durante lo spicciolo lavoro politico. Nonostante le ottime intenzioni, il tenore del libro non supera questa documentata e mossa constatazione né riesce ad una confutazione teorica sul piano adeguato e col vigore “necessario”»; e conclude: «La riprova ne dà l’ultimo capitolo, in cui la trattazione vorrebbe conchiudersi col raccomandare un pratico contegno politico. Il De Man, egualmente evitando i due estremi di una tattica di presa del potere e di un apostolato esclusivamente idealistico, consiglia una generica educazione delle masse e con ciò si pone fuori di quel socialismo, di cui pure per tutta l’opera si era dichiarato fedele e illuminato seguace».

Nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929, nell’articolo Per la pace sociale (del p. Brucculeri) che commenta il famoso lodo emesso dalla Congregazione del Concilio nel conflitto tra operai e industriali cattolici della regione Roubaix-Tourcoing, c’è questo passo: «Il marxismo – come dimostra nelle sue più belle pagine il De Man – è stata una corrente materializzatrice del mondo operaio moderno». Cioè le pagine del De Man sono tutte belle, ma alcune sono più belle ancora. (Dato questo atteggiamento dei cattolici verso la tendenza del De Man, può spiegarsi come Giuseppe Prezzolini, accennando nel «Pégaso» del settembre 1930 al volume del Philip sul Movimento operaio americano, qualifichi il Philip come un «democratico cristiano», sebbene dal libro una tale qualifica non risulti e non sia giustificata).

Nei fascicoli della «Civiltà Cattolica» del 5 ottobre e 16 novembre 1929 è pubblicato un saggio molto diffuso sul libro del De Man. L’opera del De Man è reputata «nonostante le sue deficienze, la più importante e, diciamo pure, geniale, di quante finora ne annoveri la letteratura antimarxista». Verso la fine del saggio c’è questa impressione complessiva: «L’A. (il De Man), benché abbia superato una crisi di pensiero respingendo, con gesto magnanimo, il marxismo, è tuttavia ondeggiante, e la sua intelligenza sitibonda di vero non è a pieno soddisfatta. Egli batte sulle soglie della verità, raccoglie dei raggi, ma non si spinge innanzi per tuffarsi nella luce. Auguriamo al De Man che, compiendo la sua crisi, possa elevarsi, come il gran vescovo di Tagaste, dal divino riflesso che è la legge morale nell’anima, al divino infinito, alla sorgente eternamente splendida di tutto ciò che per l’universo si squaderna».