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Trascrizione

§ Il teatro di Pirandello. Forse ha ragione il Pirandello a protestare egli per il primo contro il «pirandellismo», cioè a sostenere che il così detto pirandellismo è una costruzione astratta dei sedicenti critici, non autorizzato dal suo concreto teatro, una formula di comodo, che spesso nasconde interessi culturali e ideologici tendenziosi, che non vogliono confessarsi esplicitamente. È certo che Pirandello è sempre stato combattuto dai cattolici: ricordare il fatto che Liolà è stata ritirata dal repertorio dopo le cagnare inscenate al teatro Alfieri di Torino dai giovani cattolici per istigazione del «Momento» e del suo mediocrissimo recensore teatrale Saverio Fino. Lo spunto contro Liolà fu dato da una pretesa oscurità della commedia, ma in realtà tutto il teatro del Pirandello è avversato dai cattolici per la concezione pirandelliana del mondo, che, qualunque essa sia, qualunque sia la sua coerenza filosofica, è indubbiamente anticattolica, come invece non era la concezione «umanitaria» e positivistica del verismo borghese e piccolo borghese del teatro tradizionale. In realtà non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia «filosofia». È certo però che nel Pirandello ci sono dei punti di vista che possono riallacciarsi genericamente a una concezione del mondo, che all’ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica. Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo «filosofico», oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? cioè la «filosofia» implicita è esplicitamente solo «cultura» ed «eticità» individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? e ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece le posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico? 2) questi punti di vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?

Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi, quelli concepiti in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, «dialettale» e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita superdialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale e anche cosmopolita. Ora pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare «storicamente» popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di «intellettuali» travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani che pensano e operano così proprio perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell’idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere «dialettico» e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare.

Ma non mi pare che il problema culturale del teatro pirandelliano sia ancora esaurito in questi termini. In Pirandello abbiamo uno scrittore «siciliano», che riesce a concepire la vita paesana in termini «dialettali», folcloristici (secpure il suo folclorismo non è quello influenzato dal cattolicismo, ma quello rimasto «pagano», anticattolico sotto la buccia cattolica superstiziosa), che nello stesso tempo è uno scrittore «italiano» e uno scrittore «europeo». E in Pirandello abbiamo di più: la coscienza critica di essere nello stesso tempo «siciliano», «italiano» ed «europeo», ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello accanto al suo grande significato «culturale» (come ho notato in altre note). Questa «contraddizione», che è intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare Il Turno, si rappresenta l’incontro tra una donna siciliana e un marinaio scandinavo, tra due «province» così lontane storicamente). Quello che importa è però questo: il senso critico-storico del Pirandello, se lo ha portato nel campo culturale a superare e dissolvere il vecchio teatro tradizionale, convenzionale, di mentalità cattolica o positivistica, imputridito nella muffa della vita regionale o di ambienti borghesi piatti e abbiettamente banali, ha però dato luogo a creazioni artistiche compiute? Se anche l’intellettualismo del Pirandello non è quello identificato dalla critica volgare (di origine cattolica tendenziosa, o tilgheriana dilettantesca) è però il Pirandello libero di ogni intellettualismo? Non è più un critico del teatro che un poeta, un critico della cultura che un poeta, un critico del costume nazionale-regionale che un poeta? Oppure dove è realmente poeta, dove il suo atteggiamento critico è diventato contenuto-forma d’arte e non è «polemica intellettuale», logicismo sia pure non da filosofo, ma da «moralista» in senso superiore? A me pare che Pirandello sia artista proprio quando è «dialettale» e Liolà mi pare il suo capolavoro, ma certo anche molti «frammenti» sono da identificare di grande bellezza nel teatro «letterario».

Letteratura su Pirandello. Per i cattolici: Silvio D’Amico, Il Teatro italiano (Treves, 1932) e alcune note della «Civiltà Cattolica». Il capitolo di D’Amico sul Pirandello è stato pubblicato nell’«Italia Letteraria» del 30 ottobre 1932 e ha determinato una vivace polemica tra il D’Amico stesso e Italo Siciliano nell’«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932. Italo Siciliano è autore di un saggio, Il Teatro di L. Pirandello, che pare sia abbastanza interessante perché tratta precisamente dell’«ideologia» pirandellista. Per il Siciliano il Pirandello «filosofo» non esiste, cioè la così detta «filosofia pirandelliana» è «un melanconico, variopinto e contradditorio ciarpame di luoghi comuni e di sofismi decrepiti», «la famosa logica pirandelliana è vano e difettoso esercizio dialettico», e «l’una e l’altra (la logica e la filosofia) costituiscono il peso morto, la zavorra che tira giù – e talvolta fatalmente – un’opera d’arte di indubbia potenza». Per il Siciliano «il faticoso arzigogolare del P. non si è trasformato in lirismo o poesia, ma è restato grezzo e, non essendo profondamente vissuto, ma “plaqué”, inassimilato, talvolta incompatibile, ha nociuto, ha impastoiato e soffocato la vera poesia pirandelliana». Il Siciliano, pare, reagì alla critica di Adriano Tilgher, che aveva fatto del Pirandello «il poeta del problema centrale», cioè aveva dato come «originalità artistica» del Pirandello ciò che era un semplice elemento culturale, da tenersi subordinato e da esaminare in sede culturale. Per il Siciliano la poesia del Pirandello non coincide con questo contenuto astratto, sicché questa ideologia è completamente parassitaria: così pare, almeno, e se così è, non pare giusto. Che questo elemento culturale non sia il solo del Pirandello può essere concesso e d’altronde è quistione d’accertamento filologico; che questo elemento culturale non sempre si sia trasfigurato artisticamente è anche da concedersi. Ma in ogni modo rimane da studiare: 1) Se esso è diventato arte in qualche momento; 2) se esso, come elemento culturale, non ha avuto una funzione e un significato nel mutare sia il gusto del pubblico, sprovincializzandolo e modernizzandolo, e se esso non ha mutato le tendenze psicologiche, gli interessi morali degli altri scrittori di teatro, confluendo col futurismo migliore nel lavoro di distruzione del basso ottocentismo piccolo borghese e filisteo.

La posizione ideologica del D’Amico verso il «pirandellismo» è espressa in queste parole: «Con buona pace di quei filosofi che, a cominciare da Eraclito, pensano il contrario, è ben certo che, in senso assoluto, la nostra personalità è sempre identica e una, dalla nascita al Dilà; se ognuno di noi fosse “tanti”, come dice il Padre dei Sei personaggi, ciascuno di questi “tanti” non avrebbe né da godere i benefici né da pagare i debiti degli “altri” che porta in sé; mentre l’unità della coscienza ci dice che ognuno di noi è sempre “quello” e che Paolo deve redimere le colpe di Saulo perché, anche essendo divenuto “un altro”, è sempre la stessa persona».

Questo modo di porre la quistione è abbastanza scempio e ridicolo e d’altronde sarebbe da vedere se nell’arte del Pirandello non predomini l’umorismo, cioè l’autore non si diverta a far nascere certi dubbi «filosofici» in cervelli non filosofici e meschini per «sfottere» il soggettivismo e il solipsismo filosofico. Le tradizioni e l’educazione filosofica del Pirandello sono di origine piuttosto «positivistica» e cartesiana alla francese; egli ha studiato in Germania, ma nella Germania dell’erudizione filologica pedantesca, di origine non certo hegeliana ma proprio positivistica. È stato in Italia professore di stilistica e ha scritto sulla stilistica e sull’umorismo non certo secondo le tendenze idealistiche neohegeliane ma piuttosto in senso positivistico. Perciò appunto è da accertare e fissare che l’«ideologia» pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche ma è connessa a esperienze storico-culturali vissute con apporto minimo di carattere libresco. Non è escluso che le idee del Tilgher abbiano reagito sul Pirandello, che cioè il Pirandello abbia, accettando le giustificazioni critiche del Tilgher, finito col conformarvisi e perciò occorrerà distinguere tra il Pirandello prima dell’ermeneutica tilgheriana e quello successivo.