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Trascrizione

§ Alfredo Panzini. La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata a puntate nell’«Italia Letteraria» nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929 ed è stata ristampata (riveduta e corretta? sarebbe interessante un esame minuzioso, se ne valesse la pena) dall’editore Mondadori, in un volume delle «Scie» con notevole ritardo. Nell’«Italia Letteraria» del 30 giugno, col titolo Chiarimento è pubblicata una lettera inviata dal Panzini, con la data del 27 giugno 1929, al direttore del «Resto del Carlino»: il Panzini, con stile seccato e intimamente allarmato, si lamenta per un piccante commento, pubblicato dal giornale bolognese alle due prime puntate del suo scritto che era giudicato «piacevole giocherello» e «cosa leggera». Il Panzini risponde in stile da telegramma: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e drammatico, tutto però documentato (Carteggio Nigra-Cavour)». (Come se la sola documentazione per la vita del Cavour fosse questo Carteggio!) Il Panzini cerca poi di difendersi, assai male, dall’aver accennato a una forma di dittatura propria del Cavour, «umana», che ellitticamente poteva sembrare un giudizio critico su altre forme di dittatura: figurarsi la tremarella del Panzini nel procedere per questi «ignes». L’episodio ha un certo significato, perché mostra come molti si siano cominciati ad accorgere che queste scritture pseudo-nazionali e patriottiche del Panzini sono stucchevoli, insincere e mostrano la trama. L’imbecillità e l’inettitudine del Panzini di fronte alla storia sono incommensurabili: il suo scrivere è un puro e infantile gioco di parole, ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe far credere all’esistenza di chissà mai quali profondità, come quelle che certi contadini esprimono nel loro ingenuo modo di parlare. Bertoldo storico! In realtà è una forma di stenterellismo che si dà l’aria del Machiavelli in maniche di camicia e non in abito curiale. Un’altra puntata contro il Panzini si può leggere nella «Nuova Italia» di quel torno di tempo: si dice che la Vita di Cavour è scritta come se il Cavour fosse Pinocchio!

Né si può dire che lo stile del Panzini, nelle sue scritture di storia, sia «piacevole e drammatico»: egli è piuttosto farsesco e la storia è rappresentata come una «piacevolezza» da commesso viaggiatore o da farmacista di provincia: il farmacista è Panzini e i clienti sono altrettanti Panzini che si beano della propria fatua stupidaggine.

Tuttavia la Vita di Cavour ha una sua utilità: è una raccolta stupefacente di luoghi comuni sul Risorgimento e un documento di primo ordine del gesuitismo letterario del Panzini. Esemplificazione: «Uno scrittore inglese ha chiamato la storia dell’unità d’Italia la più romanzesca storia dei tempi moderni». (Il Panzini, oltre a creare luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati messi in circolazione da altri scrittori, specialmente stranieri, senza accorgersi che in molti casi, come in questo, è implicito un giudizio «diffamatorio» del popolo italiano: il Panzini deve essersi fatto uno schedario speciale di luoghi comuni, per condire opportunamente i propri scritti). «Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un gran Re».

Questo luogo comune, questa oleografia da bettola di Vittorio Emanuele è da unire all’altro sulla «tradizione» militare del Piemonte e della sua aristocrazia. In realtà in Piemonte è proprio mancata una «tradizione» militare nel senso non burocratico della parola, cioè è mancata una «continuità» di personale militare di prim’ordine, e ciò è proprio apparso nelle guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata nessuna personalità (eccetto che nel campo garibaldino), ma invece sono affiorate molte deficienze interne gravissime. In Piemonte esisteva una tradizione militare «popolare»; dalla sua popolazione era sempre possibile trarre un buon esercito; apparvero di tanto in tanto capacità militari di primo ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc., ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell’aristocrazia, nell’ufficialità superiore. La situazione fu aggravata dalla restaurazione e la prova se ne ebbe nel 48 quando non si sapeva dove metter le mani per dare un capo all’esercito e dopo aver domandato invano un generale alla Francia, si fini con l’assumere un minchione qualsiasi di polacco. Le qualità guerriere di Vittorio Emanuele II consistevano solo in un certo coraggio personale, che si dovrebbe pensare essere stato molto raro in Italia se tanto si insiste per farlo rimarcare: lo stesso si dica per il «galantomismo»; si dovrebbe pensare che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l’essere galantuomini viene elevato a titolo di distinzione. A proposito di Vittorio Emanuele II è da ricordare l’aneddoto riferito da F. Martini nel suo libro postumo di memorie (ed. Treves); racconta il Martini che dopo la presa di Roma Vittorio Emanuele abbia detto che gli dispiaceva non ci fosse più nulla da «piè» (pigliare) e ciò a chi raccontava l’aneddoto (credo Q. Sella) pareva dimostrare che non ci fosse stato nella storia un re più conquistatore di Vittorio Emanuele. Dell’aneddoto si potrebbe dare forse altra spiegazione più terra terra, legata alla concezione dello stato patrimoniale e alla varia misura della lista civile. È da ricordare poi l’epistolario di Massimo D’Azeglio pubblicato dal Bollea nel «Bollettino Storico Subalpino» e il conflitto tra Vittorio Emanuele e Quintino Sella su quistioni economiche.

Ciò che poi stupisce molto è che si insista tanto sugli episodi «galanti» della vita di Vittorio Emanuele come se essi fossero tali da rendere più popolare la figura del re: si narra di alti funzionari e di ufficiali che andavano nelle famiglie di contadini per convincerle a mandare delle ragazze a letto col re per quattrini. A pensarci bene è stupefacente che tali cose siano raccontate credendo di rafforzare l’ammirazione popolare.

«... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una nobiltà guerriera». Si potrebbe osservare che Napoleone III, data la «tradizione» guerriera della sua famiglia, si occupò di scienza militare e scrisse libri che pare non fossero troppo malvagi per i suoi tempi.

«Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli (Cavour) andava molto d’accordo col suo re, benché anche in questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbe potuto attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori», e via di questo tono fino a ricordare che i propositi galanti (!) del re alla corte delle Tuglierì (sic) furono così audaci «che tutte le dame ne rimasero amabilmente (!) atterrite. Quel forte, magnifico Re montanaro!» (Il Panzini si riferisce agli aneddoti raccontati dal Paleologue, ma che differenza di tòcco. Il Paleologue, pur data la materia scabrosa, mantiene il tono del gentiluomo cortigiano: il Panzini non sa evitare il linguaggio del lenone da trivio, del commerciante in tratta delle bianche). «Cavour era assai più raffinato. Cavallereschi però tutti e due, e oserei (!) dire, romantici (!)». «Massimo D’Azeglio... da quel gentiluomo delicato che era...»

L’accenno del Panzini, di cui si parla a p. 37 e che gli attirò i fulmini... confinari del «Resto del Carlino» è contenuto nella seconda puntata della Vita di Cavour edizione «Italia Letteraria» (numero del 16 giugno) ed è bene riportarlo perché sarà stato cassato o modificato nell’ed. Mondadori: «Non ha bisogno di assumere atteggiamenti specifici. Ma in certi momenti doveva apparire meraviglioso e terribile. L’aspetto della grandezza umana è tale da indurre negli altri ubbidienza e terrore, e questa è dittatura più forte che non quella di assumere molti portafogli nei ministeri».

Pare incredibile che una tale frase sia potuta sfuggire al pavido Panzini ed è naturale che il «Resto del Carlino» l’abbia beccato. Dalla risposta del Panzini si può spiegare l’infortunio: «Quanto a certe puntate contro la dittatura, forse fu errore fidarmi nella conoscenza storica del lettore. Cavour, nel 1859, domandò (?!) i poteri dittatori assumendo diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con molto (!?) scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la dittatura dell’umana grandezza di Cavour». Pare evidente che l’intento del Panzini fosse adulatorio, ma la sua innocenza politica e quindi storica gli diede lo sgambetto e trasformò l’adulazione servile in una smorfia equivoca. Non si può parlare di dittatura per il Cavour, tanto meno nel 1859 e anzi questa fu una debolezza nello svolgimento della guerra e nella posizione dei piemontesi in seno all’alleanza con Napoleone. Sono note le opinioni del Cavour sulla dittatura e sulla funzione del Parlamento, opinioni di cui il Panzini pavidamente tace, sebbene il parlarne non sarebbe stato certo pericoloso. Ciò che è curioso è che più oltre il Panzini stesso mostra come il Cavour fosse stato tagliato fuori dallo svolgimento della guerra e sebbene ministro della guerra, non ricevesse neppure i bollettini dell’esercito. Per un dittatore non c’è male. Il Cavour non riuscì neppure a far valere le sue prerogative costituzionali di capo del Governo, che del resto non erano contemplate nello Statuto, e quindi il suo conflitto col re dopo l’armistizio di Villafranca. In realtà non la politica di Cavour fu continuata dalla guerra del 59, ma un miscuglio delle velleità politiche di Napoleone e delle tendenze assolutiste piemontesi impersonate dal re e da un gruppo di generali. Si ripeté la situazione del 1848-49, e se non ci fu disastro militare, ciò fu dovuto alla presenza dell’esercito francese: ma il risultato della situazione politica anormale fu grave lo stesso, perché nell’alleanza Napoleone ebbe l’egemonia illimitata, e il Piemonte un posto troppo subordinato.

«... la guerra d’Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per chiarezza di discorso si omette». (Affermazione impagabile per uno storico: si afferma che Cavour è stato un genio politico ecc., ma l’affermazione non diventa mai dimostrazione e rappresentazione concreta. Il significato della partecipazione piemontese alla guerra di Crimea e della capacità politica di Cavour nell’averla voluta, è «omesso» per «chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è sguaiatamente triviale: non si cerca di spiegare perché Napoleone abbia collaborato con Cavour (le citazioni d’appoggio dovrebbero essere troppe: occorrerà rivedere il libro o l’annata dell’«Italia Letteraria»). «Al Museo napoleonico in Roma c’è un prezioso pugnale con una lama che può passare il cuore (non è un pugnale dei soliti, a quanto pare! «Può questo pugnale servire di documento? Di pugnali io non ho esperienza (!), ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.». (Il Panzini deve sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la «livida lama» della Lanterna di Diogene. Forse si è trovato per caso presente a qualche torbido in Romagna e deve aver visto qualche paio d’occhi guatarlo biecamente: onde le «livide lame» che passano il cuore ecc.).

«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l’aspetto di Belzebù, legga il romanzo L’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani e si divertirà (sic) un mondo, anche perché, a dispetto di quel che ne dicono i moderni (ma il De Sanctis era contemporaneo del Bresciani), quel padre gesuita fu un potente narratore». (Questo brano si potrebbe porre come epigrafe al saggio sui «Nipotini del padre Bresciani»: esso si trova nella puntata terza della Vita di Cavour, edizione dell’«Italia Letteraria», n. del 23 giugno 1929).

Tutta questa Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite romanzate sono la forma attuale della letteratura storica amena tipo Alessandro Dumas, A. Panzini è il Ponson du Terrail del quadro. Il Panzini vuole così ostentatamente mostrare di «saperla lunga» sull’animo e sulla natura degli uomini, di essere un così furbissimo furbo, un realista così disincantato dalla tenebrosa nequizia dell’uman genere e specialmente dei politici, che, dopo averlo letto, viene voglia di rifugiarsi in Condorcet e in Bernardin de Saint-Pierre, che almeno non furono così trivialmente filistei. Nessun nesso storico è ricostruito nel fuoco di una personalità: la storia ti diventa una sequela di storielle poco divertenti perché insalivate dal Panzini, senza nesso né di individualità eroiche, né di altre forze sociali; quella del Panzini è veramente una nuova forma di gesuitismo, molto più accentuata di quanto si pensava leggendo la Vita a puntate. Al luogo comune della «nobiltà guerriera e non da anticamera» si possono contrapporre i giudizi che il Panzini volta per volta dà dei singoli generali come il La Marmora e il Della Rocca, spesso con espressioni di scherno trivialmente spiritoso: «Della Rocca è un guerriero. A Custoza, 1866, non brillerà per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini». (È proprio una frase da «demagogo». Il Della Rocca non voleva più mandare i bollettini dello Stato Maggiore a Cavour, che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla quale collaborava il re). Altre allusioni del genere per il La Marmora e per il Cialdini (anche se Cialdini non fu piemontese) e mai è riferito il nome di un generale piemontese che abbia in qualche modo brillato: altro accenno al Persano.

Non si comprende proprio cosa il Panzini abbia voluto scrivere con questa Vita di Cavour, perché non si tratta certo di una vita di Cavour né di una biografia dell’uomo Cavour, né di un profilo del politico Cavour. In verità, dal libro del Panzini, il Cavour, uomo e politico, esce piuttosto malconcio e ridotto a proporzioni da Gianduia: la sua figura non ha nessun rilievo concreto, perché a dare un rilievo non bastano certo le giaculatorie che il Panzini continuamente ripete: eroe, superbo, genio ecc. Questi giudizi, non essendo giustificati (perciò si tratta di giaculatorie), potrebbero addirittura parere canzonature, se non si comprendesse che la misura che il Panzini adopera per giudicare l’eroismo, la grandezza, il genio ecc. non è altro che la sua personale misura, la genialità, la grandezza, l’eroismo del sig. Panzini Alfredo. Allo stesso modo e per la stessa ragione, il Panzini abbonda nel trovar attivi il dito di dio, il fato, la provvidenza negli avvenimenti del Risorgimento; si tratta della concezione volgare dello «stellone» condita con parole da tragedia greca e da padre gesuita, ma non perciò meno triviale. In realtà l’insistenza balorda sull’«elemento extra umano» oltre che imbecillità storica, significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che pure ebbe non piccola parte negli avvenimenti. Cosa potrebbe significare che la rivoluzione italiana è stata un evento miracoloso? Che tra il fattore nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che aveva il peso maggiore e creava difficoltà che parevano insormontabili. È questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse la grandezza di Cavour sarebbe messa ben più in rilievo e la sua funzione personale, il suo «eroismo» apparirebbe ben più da esaltare (a parte ogni altra considerazione). Ma il Panzini vuol dare colpi a molte botti con molti cerchi e non riesce a raccapezzare niente di sensato: né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i rivoluzionari: tutti furono grandi, rivoluzionari ecc. come al buio tutto i gatti sono bigi.

Nell’«Italia Letteraria» del 2 giugno 1929 è pubblicata un’intervista di Antonio Bruers col Panzini: Come e perché Alfredo Panzini ha scritto una «Vita di Cavour». Vi si dice che lo stesso Bruers ha indotto il Panzini a scrivere il libro «in modo che il pubblico potesse avere finalmente un “Cavour” italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno inglese, e uno francese». Nell’intervista il Panzini dice che la sua Vita «non è una monografia nel senso storico-scientifico della parola; è un profilo destinato non ai dotti, agli “specialisti” ma al vasto pubblico» (cioè chincaglieria per negri). Il Panzini è persuaso che nel suo libro ci siano delle parti originali e precisamente il fatto di aver dato importanza all’attentato di Orsini per spiegare l’atteggiamento di Napoleone III; secondo il Panzini Napoleone III sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale vincolò con impegno d’onore (!) il futuro sovrano della Francia»; Orsini, mandatario della Carboneria (che non esisteva più da un bel pezzo) avrebbe ricordato a Napoleone il suo impegno e quindi ecc. (proprio un romanzo alla Ponson du Terrail; Orsini, se mai vi appartenne, doveva aver dimenticato, al tempo dell’attentato, da un bel pezzo, la Carboneria; le sue repressioni del 48 nelle Marche furono proprio dirette contro i vecchi carbonari, e ancora, l’Orsini, dopo aver superato, come gli altri rivoluzionari, la Carboneria nella «Giovane Italia» e nel mazzinianismo, era stato già in rotta con Mazzini). Le ragioni dell’atteggiamento personale di Napoleone verso Orsini (che in ogni modo fu ghigliottinato) si spiegano forse banalmente con la paura del complice sfuggito e che poteva ritentare la prova; anche la grande serietà dell’Orsini che non era un qualunque scalmanato, dovette imporsi e dimostrare che l’odio dei rivoluzionari italiani per Napoleone non era una bazzecola: occorreva far dimenticare la caduta della Repubblica Romana e cercare di distruggere l’opinione diffusa che Napoleone fosse il maggior nemico dell’unità d’Italia. Il Panzini poi dimentica (per «chiarezza») che c’era stata la guerra di Crimea e l’orientamento generale di Napoleone pro-italiano (che però, essendo conservatore, non doveva essere gradito ai rivoluzionari); tanto che l’attentato sembrò spezzare la trama già ordita. Tutta l’ipotesi del Panzini si basa sull’aver visto il famoso pugnale che passava il cuore e sull’ipotesi che fosse un oggetto carbonaro: un romanzo alla Ponson e niente altro.