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Trascrizione

§ La quistione agraria. Nella «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928 è pubblicato un articolo di Nello Toscanelli, Il latifondo, che contiene già nella prima pagina una perla come questa: «Da quando l’arte di scrivere ha permesso agli Italiani di avere una storia (!), l’argomento della divisione delle terre è sempre stato all’"ordine del giorno" dei comizi popolari. Infatti, in un paese, nel quale si può viver bene per la maggior parte dell’anno all’aria aperta, il diventar padrone, sia pur di un piccolo appezzamento di terra, rappresenta l’aspirazione segreta del cittadino (!?), convinto di poter trovare le più facili gioie ed una fonte perenne di prodotti nei campi, da lui visti soltanto nel rigoglio primaverile delle mèssi o nell’epoca dell’allegra vendemmia. Ed, in minor grado (!?), la dolce visione della proprietà terriera scuote anche (!) il campagnolo, che pur sa (!) le lentezze e le disillusioni dell’agricoltura». (Questo Nello Toscanelli è un tipo bislacco come Loria).

Secondo il Toscanelli la formula: «La terra ai contadini» fu presentata nel 1913 in un programma elettorale dall’onorevole Aurelio Drago. (Ripresa durante la guerra, nel 1917, da un presidente del Consiglio e divulgata nel «Resto del Carlino» dal senatore Tanari). L’articolo del Toscanelli è una verbosa scorribanda giornalistica senza alcun valore (contro la riforma agraria, naturalmente).

Il Toscanelli, nel suo articolo, aveva accennato molto cortesemente al fatto che nel 1917 il senatore Tanari aveva illustrato la formula «la terra ai contadini», per dire che essa non faceva più paura a nessuno se un noto conservatore come il Tanari e un Presidente del Consiglio (chi è stato? Orlando? o si riferisce a Nitti che diventò più tardi Presidente e allora era ministro del Tesoro?) la propugnavano e illustravano. Ma nel 1928 il Tanari si è fortemente adombrato e ha avuto paura che qualcuno credesse essere egli stato, in un qualsiasi momento, un Ravachol (sic) della proprietà.

Nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1928 è pubblicata una Lettera al Direttore della «Nuova Antologia» in cui il Tanari si giustifica, cercando di spiegare e di attenuare il suo atteggiamento del 1917: «Tengo a dichiarare che in un articolo: La terra ai contadini? (con tanto di punto interrogativo), e successivamente in un mio studio pubblicato Sulla quistione agraria, non intesi illustrare proprio nulla! Ecco invece come stanno le cose. Ero piuttosto (sic) al corrente di ciò che si prometteva in trincea ai contadini, e quando mi accorsi che la divisione della terra diventava programma di dopo guerra (in corsivo dall’autore) mi pare fosse venuto il tempo di convogliarla nei suoi argini; onde difendere al possibile il principio di proprietà, che io ritenevo... (ecc. ecc.). In qual modo raggiungere questo intento? Erano tempi nei quali con il suffragio sempre più allargato, con i Comuni presi d’assalto dal socialismo (nel 1917?!!), nei Consigli Comunali su dieci consiglieri vi erano forse due amministratori che pagavano tasse (tasse dirette, vuol dire, ma quelle indirette, tra cui il dazio sul grano a beneficio dei vari Tanari?) mentre altri otto, nullatenenti, le mettevano (cioè cercavano di impedire che le amministrazioni, come avrebbero voluto i vari Tanari, vivessero solo con le imposte indirette). Questo numero esiguo di abbienti di fronte ai non abbienti sottostava alla teoria social-comunista del così detto “carciofo” (la teoria, a dire il vero, è molto più antica, è precisamente la teoria della politica piemontese nell’unificazione italiana e il Tanari commette un delitto di lesa maestà affermando che si tratta di una teoria socialcomunista, e nel 1917, per giunta); metter cioè sempre più tasse a carico di coloro che possedevano e piano piano, foglia per foglia, giungere alla espropriazione. In alcuni Comuni ci si era quasi arrivati (!?). Cosa mi venne in mente allora?... In Francia, pensavo, sopra una popolazione di 40 milioni di abitanti vi erano nell’anteguerra quattro milioni di proprietari: in Italia sopra 35 milioni non eravamo che un milione e mezzo. Evidentemente in pochi, per difendersi con l’aria che tirava in quei tempi! (“in quei tempi” era poi il 1917!) Ed allora azzardai questa idea veramente “rivoluzionaria”: “Se venisse una legge che facilitasse non coattivamente (notate bene), ma liberamente il trapasso della media e grande proprietà assenteista (in corsivo dall’autore) nei coltivatori diretti del suolo, quando risultassero tecnicamente, moralmente e finanziariamente idonei, pagando la terra, si noti bene (in corsivo dall’autore), con obbligazioni garantite in parte dal reddito della nuova proprietà ed in parte dallo Stato, io non sarei stato contrario (come, Dio me lo perdoni, non lo sono neanche ora) ad una simile legge”. Non l’avessi mai detto! Socialisti più evoluti e intelligenti capirono benissimo dove andavo a vulnerarli e me lo dissero. Altri meno onesti tolsero al mio articolo il punto interrogativo; così che da una questione posta dubitativamente ed interrogativa, si passò ad una affermativa. Nell’altro campo dei proprietari, parecchi che non mi avevano letto, o che non capivano nulla, mi considerarono come un vero espropriatore; e così con la migliore intenzione in difesa del principio di proprietà, bersagliato tra i due fuochi di opposti interessi mi convinsi... che avevo ragione! (corsivo dall’autore)».

Questa lettera del senatore G. Tanari è notevole per la sua ipocrisia politica e per le sue reticenze. Occorre notare: che il Tanari si guarda bene dal dare le indicazioni precise dei suoi scritti, che risalgono alla fine del 17 o ai primi del 18, mentre egli, molto abilmente, ma anche con molta rozza slealtà, cerca di far credere del dopo guerra. Ciò che spinse il Tanari a occuparsi della divisione della terra e a sostenerla esplicitamente (naturalmente egli ha ragione quando sostiene che voleva rafforzare la classe dei proprietari, ma non è questa la quistione) fu lo spavento che invase la classe dirigente per le crisi militari del 17 e che la spinse a fare larghe promesse ai soldati contadini (cioè alla stragrande maggioranza dell’esercito). Queste promesse non furono mantenute e oggi il marchese Tanari si «vergogna» di essere stato debole, di avere avuto paura, di avere fatto della demagogia la più scellerata. In ciò consiste l’ipocrisia politica del Tanari e da ciò le sue reticenze e i suoi tentativi di far apparire la sua iniziativa nell’atmosfera del dopoguerra e non in quella del 1917-18. Bologna era allora zona di guerra e il Tanari scrisse l’articolo nel «Resto del Carlino», cioè nel giornale che, dopo il «Corriere», era il più diffuso in trincea. Il Tanari esagera nel descrivere la reazione contro di lui dei proprietari. Di fatto avvenne che il suo primo articolo fu discusso molto serenamente dal senatore Bassini, grande proprietario veneto, il quale mosse al Tanari obbiezioni di carattere tecnico («come possono essere divise le aziende agricole industrializzate») non di carattere politico. L’articolo del Tanari, quello del Bassini e la risposta del Tanari (mi pare che ci sia stata una risposta «illustrativa») furono riportati dalla «Perseveranza», giornale moderato e legato agli agrari lombardi, diretto allora o dal conte Arrivabene o da Attilio Fontana, noto agrario. Il rimprovero che i proprietari avranno certamente fatto al Tanari sarà stato quello di averli compromessi pubblicamente di fronte ai soldati-contadini, di non aver lasciato che solo degli irresponsabili facessero promesse che si sapeva non sarebbero state mantenute. Ed è questo il rimprovero che anche oggi continueranno a fargli, perché comprendono che non tutti hanno dimenticato come le promesse fatte nel momento del pericolo non sono state mantenute. L’episodio merita di essere esaminato e studiato perché molto educativo. (Su questo episodio devo aver scritto una nota in altro posto, senza aver davanti la lettera del Tanari: vedere e raggruppare).