Metadati

Trascrizione

§ Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia, «Nuova Antologia», 16 giugno – 1° luglio 1929.

Tratta le quistioni più strettamente statistiche, osservando una grande cautela nel dare giudizi, specialmente di portata più immediata. Il numero annuo dei nati vivi in Italia è andato aumentando, attraverso oscillazioni, nel primo quarto di secolo successivo all’unità nazionale (massimo di 1.152.906 nel 1887), ha declinato gradualmente fino a un minimo di 1.042.090 nel 1903, è risalito ad un massimo secondario di 1.144.410 nel 1910 e si è mantenuto negli anni prima della guerra a 1.100.000. Nel 1920 (molte nozze dopo l’armistizio) si ha il massimo assoluto di 1.158.041, che scende rapidamente a 1.054.082 nel 1927, e circa 1.040.000 nel 1928 (territorio antebellico; nei nuovi confini 1.093.054 nel 27, e 1.077.000 nel 28), cifra la più bassa negli ultimi 48 anni. In altri paesi la diminuzione assai maggiore. Diminuzione correlativa nelle morti: da un massimo di 869.992 nel 1880 ad un minimo di 635.788 nel 1912, diminuzione che, dopo il periodo bellico, con 1.240.425 morti nel 18, è ricominciata: nel 1927 solo 611.362 morti, nel 1928 614 mila (vecchi confini; nei nuovi confini, 635.996 morti nel 27 e 639.000 nel 28). Così l’eccedenza dei nati sui morti nel 1928 è stata di 426.000 circa (nuovi confini 438.000) cioè più favorevole che nel 1887, in cui solo 323.914, per l’alta percentuale di morti. Il massimo di eccedenza, 448 mila circa, si è avuto nel quinquennio 1910-14. (Si può dire, approssimativamente, che in un certo periodo storico, il grado di benessere di un popolo non può desumersi dal numero alto delle nascite, ma piuttosto dalla percentuale dei morti e dall’eccedenza dei nati sui morti: ma anche in questa fase storica incidono delle variabili che devono essere analizzate, infatti, più che di benessere popolare assoluto può parlarsi di migliore organizzazione statale e sociale per l’igiene, ciò che impedisce a una epidemia, per esempio, di diffondersi tra una popolazione a basso livello, decimandola, ma non eleva per nulla questo livello stesso, se non si può dire che lo mantenga addirittura, evitando la sparizione dei più deboli e improduttivi che vivono sul sacrificio degli altri).

Le cifre assolute delle nascite e delle morti danno solo l’incremento assoluto della popolazione. L’intensità dell’incremento è data dal rapporto di questo incremento col numero degli abitanti. Da 39,3 per 1000 abitanti del 1876 la frequenza delle nascite scende a 26 nel 1928, con una diminuzione del 33%; la frequenza delle morti da 34,2‰ nel 1867 scende a 15,6 nel 28, con una diminuzione del 54%. La mortalità comincia a discendere nettamente col quinquennio 1876-80; la natalità inizia la discesa nel quinquennio 91-95.

Per gli altri paesi d’Europa, su 1000 abitanti: Gran Bretagna 17 nati – 12,5 morti, Francia 18,2-16,6, Germania 18,4-12, Italia 26,9-15,7, Spagna 28,6-18,9, Polonia 31,6-17,4, Urss (europea) 44,9-24,4, Giappone 36,2-19,2. (I dati si riferiscono, per l’Urss, al 1925, per il Giappone al 1926, per gli altri paesi al 1927).

Per la diminuzione della mortalità il Mortara fissa tre cause principali: progresso dell’igiene, progresso della medicina, progresso del benessere, che riassumono in forma schematica un gran numero di fattori di minore mortalità (un fattore è anche la minore natalità, in quanto le età infantili sono soggette ad alta mortalità). Il fattore preponderante della bassa natalità è la decrescente fecondità di matrimoni, dovuta a volontaria limitazione, inizialmente per previdenza, poi per egoismo. Se il movimento si svolgesse uniformemente in tutto il mondo, non altererebbe le condizioni relative delle varie nazioni, pur avendo effetti gravi per lo spirito d’iniziativa, e potendo essere causa d’inerzia e di regresso morale ed economico. Ma il movimento non è uniforme: vi sono oggi popoli che si accrescono rapidamente mentre altri lentamente, vi saranno domani popoli che cresceranno celermente mentre altri diminuiranno.

Già oggi in Francia l’equilibrio tra nascite e morti è faticosamente mantenuto coll’immigrazione, che determina altri gravi problemi morali e politici: in Francia la situazione è aggravata dalla relativamente alta percentuale di mortalità in confronto dell’Inghilterra e della Germania.

Calcolo regionale per il 1926: Piemonte (proporzione per 1000 abitanti, nati e morti) 17,7-15,4, Liguria 17,1-13,8, Lombardia 25,1-17,9, Venezia Tridentina 25,0-17,5, Venezia Euganea 29,3-15,3, Venezia Giulia 22,8-16,1, Emilia 25,0-15,3, Toscana 22,2-14,3, Marche 28,0-15,7, Umbria 28,4-16,5, Lazio 28,1-16,3, Abruzzi 32,1-18,9, Campania 32,0-18,3, Puglie 34,0-20,8, Basilicata 36,6-23,1, Calabria 32,5-17,3, Sicilia 26,7-15,7, Sardegna 31,7-18,9. Prevalgono i livelli medi, ma con tendenza piuttosto verso il basso che verso l’alto.

Per il Mortara la causa della denatalità è da ricercarsi nella limitazione volontaria. Altri elementi possono contribuirvi saltuariamente, ma sono trascurabili (emigrazione degli uomini). C’è stato un «contagio» della Francia nel Piemonte e in Liguria, dove il fenomeno è più grave (emigrazione temporanea ha servito di veicolo) e di più lontana origine, ma non si può parlare di contagio «francese» per la Sicilia, che nel Mezzogiorno è un focolaio di denatalità. Non mancano indizi di limitazione volontaria in tutto il Mezzogiorno. Campagna e città: la città ha meno nascite che la campagna. Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze hanno (nel 1926) una media di natalità inferiore a Parigi.