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Trascrizione

§ I nipotini di padre Bresciani. Luigi Capuana. Da un articolo di Luigi Tonelli Il carattere e l’opera di Luigi Capuana nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1928: «Re Bracalone (romanzo fiabesco: il secolo XX è creato, per forza d’incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di “c’era una volta”; ma dopo averne fatta l’amara esperienza, il re lo distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c’interessa anche sotto il riguardo ideologico; ché, in un periodo d’infatuazione (!) internazionalista socialistoide, ebbe il coraggio di bollare a fuoco (!) “le sciocche sentimentalità della pace universale, del disarmo e le non meno sciocche sentimentalità dell’uguaglianza economica e della comunità dei beni” ed esprimere l’urgenza di “tagliar corto alle agitazioni che han già creato uno Stato dentro lo Stato, un governo irresponsabile” ed affermare la necessità di una coscienza nazionale: “Ci fa difetto la dignità nazionale; bisogna creare il nobile orgoglio di essa, spingerlo fino all’eccesso. È l’unico caso in cui l’eccesso non guasta”». Il Tonelli è sciocco, ma il Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto di provincia: bisognerebbe poi vedere cosa vale la sua ideologia del «C’era una volta» e del patriarcalismo primitivo.

Del Capuana occorrerà ricordate il teatro dialettale e le sue opinioni sulla lingua nel teatro a proposito della quistione della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del Capuana (come Giacinta, Malìa, Il Cavalier Pedagna) furono scritte originariamente in italiano e poi voltate in dialetto: solo in dialetto ebbero grande successo. Il Tonelli, che non capisce nulla, scrive che il Capuana fu indotto alla forma dialettale nel teatro «non soltanto dalla convinzione che “bisogna passare pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale italiano” ..., ma anche e soprattutto dal carattere particolare delle sue creazioni drammatiche: le quali sono squisitamente dialettali, e nel dialetto trovano la loro più naturale e schietta espressione». Ma cosa poi significa «creazioni squisitamente dialettali»? Il fatto è spiegato col fatto stesso, cioè non è spiegato. Vedere nel teatro di Pirandello le commedie in italiano e quelle in dialetto. La lingua non ha «storicità» di massa, non è un fatto nazionale. Liolà in italiano non vale nulla sebbene Il fu Mattia Pascal da cui è tratta sia abbastanza interessante.

Nel teatro in italiano, l’autore non si mette all’unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità della lingua quando i personaggi vogliono essere «concretamente» italiani. Perché in Italia ci sono due lingue: l’italiano e il dialetto regionale e nella vita famigliare si adopera il dialetto: l’italiano, in gran parte, è un esperanto, cioè una lingua parziale ecc.

Quando si afferma la grande ricchezza espressiva dell’italiano si cade in un equivoco: si confonde la ricchezza espressiva registrata nel vocabolario o contenuta inerte nella letteratura stampata, con la ricchezza individuale che si può spendere individualmente. Quest’ultima conta, specialmente in certi casi: per misurare il grado di unità linguistica nazionale, per esempio, che non è dato dal vocabolario ma dalla vivente parlata del popolo. Nel dialogo teatrale è evidente l’importanza di questo elemento: il dialogo dal palcoscenico deve suggerire immagini viventi, in tutta la loro concretezza storica, invece suggerisce, in gran parte, immagini libresche. Le parole della parlata famigliare si riproducono nell’ascoltatore come ricordo di parole lette nei libri o nei giornali e ricercate nel vocabolario, come sarebbe il francese in teatro ascoltato da uno che il francese ha imparato sui libri senza maestro: la parola è ossificata, senza articolazioni di sfumature, senza la comprensione del suo significato esatto che è dato da tutto il periodo ecc. Si ha l’impressione di essere goffi, o che goffi siano gli altri. Si osservi nell’italiano parlato quanti errori di pronunzia fa l’uomo del popolo: profùgo, rosèo, ecc., ciò che significa che le parole italiane le ha lette, non sentite e non sentite ripetutamente, cioè collocate in periodi diversi, ognuno dei quali abbia fatto brillare una sfaccettatura di quel poliedro che è ogni parola.