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Trascrizione

§ Il giacobismo a rovescio di Carlo Maurras (seguito al § di p. 8 bis). Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie «private» nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontario», in un modo o nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la legge Chapelier o il maximum viene superato e allargato attraverso un processo complesso, teorico-pratico (giuridico-politico = economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene l’egemonia) allargando e approfondendo la base economica con lo sviluppo industriale e commerciale fino alla epoca dell’imperialismo e alla guerra mondiale. In questo processo si alternano insurrezioni e repressioni, allargamenti e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizione o annullamento di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non nel campo politico, forme diverse del suffragio, di lista o per piccola circoscrizione, proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano, il sistema di una camera o delle due camere, coi vari modi di scelta per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, o solamente vitalizia, elettiva anch’essa, ma non come la camera bassa, ecc.), col vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura è un potere o un ordine, indipendente o controllato e diretto dal governo, con le diverse attribuzioni del capo dello Stato, col diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, minori o maggiori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei comuni); con un diverso equilibrio tra forze armate di leva e corpi armati professionali (polizia, gendarmeria); con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro potere statale (dalla magistratura, dal ministro dell’interno o da quello della guerra); con la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano delle forme consuetudinarie che possono essere abolite in virtù della legge scritta; con il distacco reale più o meno grande tra i regolamenti e le leggi fondamentali, con l’uso più o meno grande di decreti legge che si sovrappongono alla legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, forzando la «pazienza» del parlamento. A questo processo contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per la parte formale e i movimenti di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive o inefficaci. L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste.

Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e sotto vari aspetti. I più comuni sono: «crisi del principio di autorità» – «dissoluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le manifestazioni centrali, nel terreno parlamentare e governativo, e si spiegano col fallimento del «principio» parlamentare, del «principio» democratico ecc., non però del «principio» d’autorità (questo fallimento viene proclamato da altri). Praticamente questa crisi si manifesta nella sempre crescente difficoltà di formare dei governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi ed ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (cioè si verifica nell’interno di ogni partito ciò che si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di governo). Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni gruppetto interno di partito crede di avere la ricetta per arrestare l’indebolimento dell’intero partito e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose. Forse nella realtà, la corruzione è minore di quanto si creda. Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere che si tratti della «corruzione» e «dissoluzione» di un «principio», potrebbe anche essere giustificato: ognuno può essere il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo, quando cioè si opera praticamente come se si creda realmente che l’abito è il monaco, che il berretto è il cervello. Machiavelli e Stenterello. La crisi in Francia. Sua grande lentezza. I partiti francesi. Essi erano molto numerosi anche prima del 14. La loro molteplicità formale dipende dalla ricchezza di avvenimenti politici in Francia dal 1789 all’Affare Dreyfus. Ognuno di questi avvenimenti ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti; ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in realtà ha regnato in parlamento il regime dei due partiti: liberali-democratici (varie gamme del radicalesimo) e conservatori. La molteplicità dei partiti è stata utile nel passato: ha permesso una vasta opera di selezione e ha creato un gran numero di uomini di governo. Così ogni movimento dell’opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Accademia, Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi, molto disciplinati ai centri di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto una grande omogeneità. La debolezza interna più pericolosa nell’apparato statale (militare e civile) era data dal clericalismo alleato ai monarchici. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non era clericale. Nell’affare Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare l’influenza clericale-monarchica nell’apparato statale e nel per dare all’elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito, ma rafforzato l’egemonia; non si è avuto tempo di pensare: il paese è entrato in guerra e quasi subito il suo territorio è stato invaso. Il passaggio dalla vecchia disciplina alla nuova non ha domandato una crisi troppo grande: i vecchi quadri militari erano vasti abbastanza e abbastanza elastici: gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i più scelti del mondo, i meglio allenati.

Confronto con altri paesi. La quistione degli arditi. La crisi dei quadri, il gran numero degli ufficiali di complemento. Gli arditi in altri paesi hanno rappresentato un nuovo esercito di volontari, una selezione militare, che ebbe una funzione tattica primordiale. Il contatto col nemico fu ricercato solo attraverso gli arditi, che formarono come un velo tra il nemico e l’esercito di leva (come le stecche di un busto). La fanteria francese formata in maggioranza di coltivatori diretti, cioè di uomini con una certa riserva muscolare e nervosa che rese più difficile il collasso fisico procurato dalla vita di trincea (il consumo medio di un francese è di circa 1 500 000 calorie all’anno, mentre quello italiano è di meno che un milione); in Francia il bracciantato è minimo (il contadino senza terra è servo di fattoria, cioè vive la stessa vita dei padroni e non conosce l’inedia della disoccupazione neanche stagionale, il vero bracciantato non arriva a un milione di persone); inoltre il vitto in trincea era migliore che in altri paesi e il passato democratico, ricco di lotte, aveva creato il cittadino, nel doppio senso, che l’uomo del popolo si sentiva qualche cosa, non solo, ma era ritenuto qualche cosa dai superiori, cioè non era sfottuto e bistrattato per bazzecole. Non si formarono così quei sedimenti di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono altrove. Le lotte interne dopo l’armistizio mancarono perciò di grande asprezza e, specialmente, non si verificò l’inaudita oscillazione delle classi rurali. La crisi parlamentare francese indica che c’è un malessere diffuso nel paese, ma questo malessere non ha avuto sinora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni «intangibili». C’è stato un allargamento della base industriale, e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono più soddisfazioni (il prezzo della terra è basso e molte terre buone sono abbandonate agli italiani). La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento di masse normale (non dovuto a crisi economica), con una ricerca di nuovi equilibri di partito e un malessere vago, premonitore di una grande crisi. La stessa sensibilità dell’organismo politico porta a esagerare i sintomi del malessere. Si tratta per ora di una lotta per la divisione dei carichi statali e dei benefici statali, più che altro. Perciò crisi dei partiti medi e del partito radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un miglior assestamento. Le forze extrastatali fanno sentire più sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo più brutale.

Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del potere. Maurras passa per un grande uomo di stato e per un grandissimo realista. In realtà egli è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini usavano un certo linguaggio, seguivano una certa ideologia; nel loro tempo quel linguaggio e quella ideologia erano ultra-realistici perché ottennero di far marciare le forze necessarie per ottenere i fini della rivoluzione e dettero alla classe rivoluzionaria il potere. Furono poi staccati dal tempo e dal luogo e ridotti in formule: erano una cosa diversa, uno spettro, delle parole vane e inerti. Il comico è che Maurras a quelle formule ne contrappose delle altre, in un sistema logico-letterario formalmente impeccabile, ma del più puro illuminismo. Maurras rappresenta il più puro campione dello «stupido secolo XIX» la concentrazione di tutte le banalità massoniche rovesciate meccanicamente: la sua relativa popolarità viene appunto da questo, che il suo metodo piace perché è proprio quello della ragione ragionante da cui è sorto l’enciclopedismo, l’illuminismo e tutta la cultura massonica francese. Gli illuministi avevano creato il mito del selvaggio o che so io, Maurras crea il mito del passato monarchico francese; solo che questo mito è stato «storia» e le deformazioni intellettualistiche di esso possono essere troppo facilmente corrette.

La formula fondamentale di Maurras è «politique d’abord», ma egli è il primo a non osservarla. Prima della politica per lui c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento integrale di un programma «ideologico» minuziosissimo, che prevede tutti i particolari, come nelle utopie, che domanda una determinata concezione non della storia, ma della storia di Francia e d’Europa, cioè una determinata ermeneutica.

Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell’Action Française è stata la incrollabile omogeneità e unità del suo gruppo dirigente. Sempre d’accordo, sempre solidali politicamente e ideologicamente. Certo questa è una forza. Ma di carattere settario e massonico, non di grande partito di governo. Il linguaggio politico è diventato un gergo, si è formata un’atmosfera da conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensar più. Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la stessa frase, senza accordo, sullo stesso avvenimento, ma l’accordo c’era già prima: erano già due macchinette di frasi montate da 20 anni per dire le stesse frasi nello stesso momento.

Il gruppo di Maurras si è formato per «cooptazione»: in principio c’era Maurras col suo verbo, poi si unì Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Quando si staccò Valois fu una catastrofe di polemiche e di accuse. Dal punto di vista di tipo d’organizzazione l’Action Française è molto interessante. La sua forza è costituita di questi elementi: che i suoi elementi di base sono tipi sociali selezionati intellettualmente, nobili, intellettuali, ex-ufficiali, studenti, gente cioè che è portata a ripetere pappagallescamente le formule di Maurras e anzi a trarne profitto «snobistico»; in una repubblica può essere segno di distinzione l’essere monarchici, in una democrazia parlamentare l’essere reazionari conseguenti; che sono ricchi, così che possono dare tanti fondi da permettere molteplici iniziative che danno l’apparenza di una certa vitalità e attività; la ricchezza di mezzi e la posizione sociale degli aderenti palesi ed occulti permette al giornale e al centro politico di avere una massa di informazioni e di documenti riservati che danno al giornale il mezzo delle polemiche personali: nel passato, ma in parte anche ora, il Vaticano doveva essere una fonte di primo ordine (il Vaticano, come centro, la Segreteria di Stato e l’alto clero francese; molte campagne devono essere a chiave o a mezza chiave: una parte di vero che fa capire che si sa tutto o allusioni furbesche comprensibili dagli interessati). A queste campagne il giornale dà un doppio significato: galvanizzare i propri aderenti sfoggiando conoscenza delle più segrete cose, ciò che dà l’impressione di gran forza d’organizzazione e di capacità, e paralizzare gli avversari, con la minaccia di disonorarli, per fare di alcuni dei fautori segreti. La concezione pratica che si può ricavare da tutta l’attività dell’Action Française è questa: il regime parlamentare repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché esso è un «monstrum» storico che non corrisponde alle leggi «naturali» della società francese fissate da Maurras. I nazionalisti integrali devono: 1° appartarsi dalla vita reale della politica francese, non riconoscendone la legalità (astensionismo, ecc.), combattendola in blocco; 2° creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi «nei palazzi tradizionali», per un colpo di mano; questo antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali. Furono fatti molti strappi a questo rigore: nel 19 furono presentate delle candidature; nelle altre elezioni l’Action Française appoggiò i candidati di destra che accettavano alcuni suoi principii marginali (significa che tra Maurras e gli altri l’accordo non era perfetto). Per uscire dall’isolamento fu progettata la pubblicazione di un grande giornale d’informazione, ma finora non pare che se ne sia fatto nulla (esiste solo la «Revue Universelle» che compie questo ufficio nel campo delle riviste). La recente polemica col Vaticano ha rotto il solo legame che l’Action Française avesse con larghe masse, legame anch’esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale introdotto dalla Repubblica ha portato già da tempo in Francia al fatto che le masse cattoliche politicamente aderiscono ai partiti del centro e di sinistra, sebbene questi partiti siano anticlericali. La formula che la religione è una «quistione privata» si è radicata come forma popolare della separazione della Chiesa dallo Stato. Di più il complesso di associazioni che costituiscono l’Azione Cattolica francese è in mano alla aristocrazia terriera (il generale Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di guida spirituale-sociale che esercitava in Italia (settentrionale specialmente). Il contadino francese rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che volentieri dice: «il prete è prete sull’altare, ma fuori è un uomo come tutti gli altri» (se non peggio). L’Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico pensava di dominare tutto l’apparecchio di massa del cattolicismo francese. Certo c’era molta illusione in ciò, ma tuttavia doveva esserci una parte di verità, perché il legame religioso, rilassato in tempi normali, diventa più vigoroso e assorbente in epoche di grande crisi politico-morale, quando l’avvenire appare pieno di nubi tempestose. In realtà anche questa riserva possibile è svanita per Maurras. La politica del Vaticano non vuole più «astenersi» dagli affari interni francesi; ma il Vaticano è più realista di Maurras e concepisce meglio il motto «politique d’abord». Finché il contadino cattolico dovrà scegliere tra Herriot e un hobereau, sceglierà Herriot: bisogna creare il tipo politico del «radicale cattolico», cioè del «popolare», bisogna accettare la Repubblica e la democrazia e su questo terreno organizzare le masse facendo sparire (superando) il dissidio tra religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel campo individuale-privato) ma anche la guida sociale nel campo politico-economico.

La sconfitta di Maurras è certa: è la sua concezione che è falsa per troppa perfezione logica. Del resto la sconfitta era sentita da Maurras proprio all’inizio della crisi col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 25. Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l’Action Française pubblicò di essere pronta a prendere il potere. Fu pubblicato un articolo in cui si giunge fino ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava sempre il plotone di esecuzione. L’episodio è classico: la politica irrigidita e razionalistica tipo Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali siderali che reggono la società è condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione al momento risolutivo. Allora si vede che le grandi masse di energia non si riversano nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie della storia, si spostano secondo i partiti che sono stati sempre attivi. A parte la stoltezza di credere che nel 25 potesse avvenire il crollo della Repubblica per la crisi parlamentare (l’intellettualismo porta a queste allucinazioni monomaniache), ci fu un crollo morale, se non di Maurras, che sarà anche rimasto nel suo stato di illuminazione apocalittica, del suo gruppo, che si senti isolato e fece appello a Caillaux.