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§ Rapporti tra struttura e superstrutture. Questo problema mi pare il problema cruciale del materialismo storico. Elementi per orientarsi: 1°) il principio che «nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti» o esse non siano in corso di sviluppo e di apparizione, e 2°) che «nessuna società cade se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti» (vedere l’esatta enunciazione di questi principii). Da questi principii si possono trarre alcuni canoni di metodologia storica. Nello studio di una struttura occorre distinguere ciò che è permanente da ciò che è occasionale. Ciò che è occasionale dà luogo alla critica politica, ciò che è permanente dà luogo alla critica storico-sociale; ciò che è occasionale serve a giudicare i gruppi e le personalità politiche, ciò che è permanente a giudicare i grandi raggruppamenti sociali. Nello studiare un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione: esiste una crisi, che si prolunga talvolta per decine di anni. Ciò significa che nella struttura si sono rivelate contraddizioni insanabili, che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti; questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’«occasionale» sul quale si organizzano le forze che «cercano» dimostrare (coi fatti in ultima analisi, cioè col proprio trionfo, ma immediatamente con la polemica ideologica, religiosa, filosofica, politica, giuridica ecc.) che «esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente».

L’errore in cui si cade spesso nella analisi storica consiste nel non saper trovare il rapporto tra il «permanente» e «l’occasionale», cadendo così o nell’esposizione di cause remote come se fossero quelle immediate, o nell’affermazione che le cause immediate sono le sole cause efficienti. Da un lato si ha l’eccesso di «economismo», dall’altro l’eccesso di «ideologismo»; da una parte si sopravalutano le cause meccaniche, dall’altra l’elemento «volontario» e individuale. Il nesso dialettico tra i due ordini di ricerche non viene stabilito esattamente. Naturalmente se l’errore è grave nella storiografia, ancor più grave diventa nella pubblicistica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire. I propri desideri sostituiscono l’analisi imparziale e ciò avviene non come «mezzo» per stimolare, ma come autoinganno: la biscia morde il ciarlatano, ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.

Questi criteri metodologici possono acquistare tutta la loro importanza solo se applicati all’esame di studi storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza dell’esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti, solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico, si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789: cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche i rappresentanti dei gruppi nuovissimi che sostengono superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento dell’89 e dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo.

D’altronde gli storici non sono molto concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di ciò che si suole chiamare «rivoluzione francese». Per alcuni (per es. il Salvemini) la Rivoluzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha trovato la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi bisogna parlare di più rivoluzioni (il 10 agosto sarebbe una rivoluzione a sé ecc.): così il Mathiez nel suo compendio pubblicato nella Collezione Colin. Per altri però anche Napoleone deve essere incluso nella Rivoluzione, deve essere considerato un protagonista della Rivoluzione e così si può arrivare al 30, al 48, al 70. In tutti questi modi di vedere c’è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppa dopo il 1789 trovano la loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89-94, 94-1815, 1815-1830, 1830-1848, 48-70. È appunto lo studio accurato di queste «ondate» a oscillazioni più o meno lunghe che permette di fissare i rapporti tra struttura e superstrutture da una parte e dall’altra tra gli elementi che si possono chiamare permanenti e quelli «occasionali» della struttura. Si può dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principii del materialismo storico riportati in principio di questa nota è il concetto di rivoluzione permanente.

Un altro aspetto di questo stesso problema è la quistione così detta dei rapporti delle forze. Si legge spesso in queste narrazioni storiche l’espressione generica: «rapporto delle forze» favorevole o sfavorevole. Così, astrattamente, questa espressione non spiega nulla o quasi nulla: di solito si ripete il fatto che si deve spiegare, si fa una tautologia: l’errore teorico consiste nel dare un canone di ricerca e di interpretazione come «causa storica». Intanto nell’espressione «rapporto delle forze» occorre distinguere diversi momenti o gradi: mi pare se ne possano distinguere tre fondamentali:

1°) c’è un rapporto delle forze sociali strettamente legato alla struttura; questo è un rapporto obbiettivo, è un dato «naturalistico» che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o matematiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione avvengono i diversi raggruppamenti sociali, ognuno di essi rappresentando una funzione e una posizione nella produzione stessa. Questo schieramento fondamentale dà la possibilità di studiare se nella società esistono le condizioni sufficienti e necessarie per una sua trasformazione; dà la possibilità di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.

2°) un momento successivo è il «rapporto delle forze» politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità e di autocoscienza raggiunto dai vari raggruppamenti sociali. Questo «momento» a sua volta può essere scisso in diversi momenti, che corrispondono ai diversi gradi della coscienza politica, così come si sono finora manifestati nella storia. Il primo momento, il più elementare, è quello economico primitivo: un commerciante sente di essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; si sente cioè l’unità omogenea del gruppo professionale, ma non ancora del raggruppamento sociale. Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà d’interessi tra tutti i membri del raggruppamento sociale, ma ancora nel campo puramente economico. In questa fase economico-politica, si pone la quistione dello Stato, ma sul terreno dell’eguaglianza politica elementare, poiché si rivendica il diritto di partecipare all’amministrazione e alla legislazione e di modificarle, di riformarle, nei quadri generali esistenti. Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i proprii interessi «corporativi», nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia «corporativa», di raggruppamento economico cioè, e possono e debbono divenire gli interessi di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente «politica» che segna il netto passaggio dalla pura struttura alle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area, determinando oltre che l’unità economica e politica anche l’unità intellettuale e morale, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia di un raggruppamento sociale fondamentale su i raggruppamenti subordinati. Lo Stato-governo è concepito sì come organismo proprio di un raggruppamento, per creare il terreno favorevole alla massima espansione di questo raggruppamento stesso, ma anche questo sviluppo e questa espansione sono visti concretamente come universali, cioè collegati agli interessi dei raggruppamenti subordinati come uno sviluppo di equilibri instabili tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati in cui gli interessi del gruppo fondamentale prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè almeno fino all’egoismo economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si complicano tra loro, orizzontalmente e verticalmente, cioè per attività economica (orizzontale) e per territorio (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente, e ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener presente che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando a loro volta combinazioni originali e storicamente concrete. Un’ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in un paese meno sviluppato, incidendo nel gioco locale delle combinazioni (la religione, per esempio, è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali-internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, fra cui gli «intellettuali» in genere, la Massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia internazionale che si suggerisce espedienti politici o li impone in determinati paesi ecc.; la religione, la Massoneria, il Rotary, gli ebrei possono rientrare nella stessa categoria generale degli «intellettuali», la cui funzione principale, su scala internazionale, è stata quella di mediare gli estremi, di trovare dei compromessi intermedi tra le soluzioni più estreme); questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato nell’interno di ogni nazione dal fatto frequente dell’esistenza di parecchie sezioni territoriali nazionali di diversa struttura e di diverso rapporto di forze in tutti i gradi (così la Vandea in Francia era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell’unità territoriale francese; così Lione rappresentava un nodo di rapporti particolari ecc.).

3°) il terzo momento è quello del «rapporto delle forze militari» che è quello immediatamente decisivo volta per volta. Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo. Ma anche questo terzo momento del rapporto delle forze non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica. Mi pare si possano distinguere in esso due momenti: il momento «militare» nel senso stretto, tecnico della parola, e il momento che si può chiamare «politico-militare». Nello sviluppo della storia mondiale ed europea questi due momenti si sono presentati in un numero vario di combinazioni. Un esempio tipico, che può servire come mezzo di dimostrazione limite, è quello del rapporto di oppressione militare nazionale, cioè di uno Stato, militarmente bene organizzato, che opprime territori di altra nazionalità, subordinando agli interessi del suo raggruppamento sociale dominante i raggruppamenti della stessa specie di queste nazionalità che opprime. Anche in questo caso il rapporto non è puramente militare ma politico-militare e le forze delle nazionalità oppresse non devono essere puramente militari, per la lotta d’indipendenza, ma militari e politico-militari. Molte osservazioni a questo proposito si trovano nelle note scritte sul Risorgimento italiano. Intanto: nel caso di oppressione nazionale, se la nazione oppressa, per iniziare la lotta d’indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le permetta di organizzare una propria forza militare nel senso stretto e tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo. La nazione oppressa dunque opporrà inizialmente alla forza militare egemone una forza solo «politico-militare», cioè elementi di azione politica che abbiano riflessi militari nel senso: 1° che abbiano efficacia disgregatrice interna nell’efficienza bellica della nazione egemone; 2° che costringano la forza militare egemone a diluirsi in un grande territorio, annullandone così gran parte dell’efficienza bellica. Nelle note sul Risorgimento appunto è stata notata l’assenza di una direzione politico-militare specialmente nel Partito d’Azione (per congenita incapacità) ma anche nel partito piemontese sia prima che dopo il 48, non per congenita incapacità, ma per «neomaltusianismo politico-economico», perché cioè non si volle neanche accennare alla possibilità di una riforma agraria e perché non si voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si voleva che la monarchia piemontese, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta l’Italia, con la pura sanzione dei plebisciti regionali.

Un’altra quistione legata al problema trattato in questa rubrica è questa: se i fatti storici fondamentali sono determinati dal malessere o dal benessere economico. Un esame della storia mondiale ed europea mi pare obblighi ad escludere ogni risposta tassativa in questo senso e a procedere per approssimazioni a una risposta piuttosto generica in un piano non economico immediato, ma piuttosto d’ordine politico e intellettuale. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione Francese, il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la rottura dell’equilibrio esistente sia dovuta a una crisi di immiserimento (vedere esattamente le affermazioni del Mathiez). Naturalmente bisogna distinguere: lo Stato era in preda a una gravissima crisi finanziaria e la quistione si poneva così: quale dei tre stati doveva fare dei sacrifizi per rimettere in sesto le finanze statali e regali? Inoltre: se la situazione della borghesia era florida, certamente non buona era la situazione dei ceti artigiani e operai e specialmente quella dei contadini servi della gleba o sottoposti ad altre angherie e gravami di carattere feudale. In ogni caso la rottura dell’equilibrio non avvenne per causa di un immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne per un conflitto di carattere superiore, per «prestigio» di gruppo, in un certo senso, per esasperazione del sentimento di indipendenza del proprio gruppo ecc. Insomma la quistione particolare del malessere o benessere come causa di rotture essenziali nell’equilibrio storico è un aspetto parziale della quistione dei «rapporti di forza» nei vari gradi. Può avvenire rottura sia perché una situazione di benessere è minacciata come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo; per cui si può dire che questi elementi appartengono alle «fluttuazioni occasionali» delle situazioni, nel cui terreno il rapporto sociale di forze diventa rapporto politico di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se manca questo processo di sviluppo da un momento all’altro nel rapporto di forze, la situazione rimane inoperosa e possono darsi conclusioni varie: la vittoria della vecchia società che si assicura un periodo di «respiro» distruggendo fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando la riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l’instaurazione della pace dei cimiteri sotto la custodia di una sentinella straniera.

Legata a questa quistione generale è la quistione del così detto «economismo» che assume diverse forme e ha diverse manifestazioni concrete. Rientra nella categoria dell’economismo tanto il movimento teorico del libero scambio come il sindacalismo teorico. Il significato di queste due tendenze è molto diverso. Il primo è proprio di un raggruppamento dominante, il secondo di un raggruppamento subalterno. Nel primo caso si specula incoscientemente (per un errore teorico di cui non è difficile identificare il sofisma) sulla distinzione tra società politica e società civile e si afferma che l’attività economica è propria della società civile e la società politica non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita storica società politica e società civile sono una stessa cosa. D’altronde anche il liberismo deve essere introdotto per legge, per intervento cioè del potere politico: è un fatto di volontà, non l’espressione spontanea, automatica del fatto economico. Diverso è il caso del sindacalismo teorico, in quanto esso si riferisce a un raggruppamento subalterno, al quale con questa teorica si impedisce di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia politico-intellettuale nella società civile e diventare dominante nella società politica. Nel caso del liberismo teorico si ha il caso di una frazione del raggruppamento dominante che vuole modificare la società politica, che vuole riformare la legislazione esistente nella parte di politica commerciale e indirettamente industriale (è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato povero e ristretto, limita, almeno parzialmente, la libertà di iniziativa industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli); la quistione è di rotazione al potere governativo di una frazione invece che di un’altra del raggruppamento dominante, non di fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile.

Nel caso del sindacalismo teorico la cosa è più complessa: è innegabile che in esso la indipendenza e l’autonomia del raggruppamento subalterno che si dice di esprimere, è invece sacrificata all’egemonia intellettuale del raggruppamento dominante, poiché il sindacalismo teorico è un aspetto del liberismo economico giustificato con alcune affermazioni del materialismo storico. Perché e come avviene questo «sacrifizio»? Perché si esclude la trasformazione del raggruppamento subordinato in dominante, o non ponendosi affatto il problema (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo), o lo si pone in forma incongrua e inefficiente (socialdemocrazia) o si afferma il salto immediato dal regime dei raggruppamenti a quello della perfetta eguaglianza (sindacalismo teorico in senso stretto). È per lo meno strano l’atteggiamento dell’economismo verso la volontà, l’azione e l’iniziativa politica, come se esse non fossero espressione dell’economia e anzi l’espressione efficiente dell’economia; come è strano che impostare concretamente la quistione dell’egemonia sia interpretato come fatto che subordina il raggruppamento egemone. Evidentemente il fatto dell’egemonia presuppone che si tenga conto degli interessi e delle tendenze dei raggruppamenti su cui l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio, che cioè il raggruppamento egemone faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo, ma questi sacrifizi non possono riguardare l’essenziale, poiché l’egemonia è politica, ma anche e specialmente economica, ha la sua base materiale nella funzione decisiva che il raggruppamento egemone esercita sul nucleo decisivo dell’attività economica.

L’economismo si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo teorico e il sindacalismo teorico. Appartengono all’economismo tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio l’astensionismo dei clericali italiani dal 1870 al 1919, divenuto dopo il 1900 sempre più parziale fino a sparire del tutto) che possono essere svariatissime, nel senso che ci può essere semi-astensionismo, un quarto ecc. Non sempre l’economismo è contrario all’azione politica e al partito politico, che viene però considerato come organismo educativo di tipo sindacale. La così detta «intransigenza» è una forma di economismo: così la «formula tanto peggio tanto meglio» ecc.

Un altro punto di riferimento per comprendere i rapporti tra struttura e superstrutture è contenuto nella Miseria della Filosofia, là dove si dice che fase importante nello sviluppo di un raggruppamento sociale nato sul terreno dell’industria è quella in cui i singoli membri di una organizzazione economico-corporativa non lottano solo più per i loro interessi economici corporativi, ma per lo sviluppo dell’organizzazione presa a sé, come tale (vedere esattamente l’affermazione contenuta nella Miseria della Filosofia, in cui sono contenute affermazioni essenziali dal punto di vista del rapporto della struttura e delle superstrutture e del concetto di dialettica proprio del materialismo storico; dal punto di vista teorico, la Miseria della Filosofia può essere considerata in parte come l’applicazione e lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach mentre la Santa Famiglia è una fase intermedia ancora indistinta, come si vede dai brani riferentesi a Proudhon e specialmente al materialismo francese. Del resto il brano sul materialismo francese è più uno spunto di storia della cultura, che un brano teoretico, come spesso si suole intenderlo e come «storia della cultura» è ammirevole e definitivo). È da ricordare insieme l’affermazione di Engels che l’economia è «in ultima analisi» la molla della storia (nelle due lettere sul materialismo storico pubblicate anche in italiano), direttamente collegata al brano famoso della prefazione alla Critica dell’Economia Politica dove si dice che gli uomini «diventano consapevoli» del conflitto tra forma e contenuto del mondo produttivo sul terreno delle ideologie. Questo nodo è da ricordare a proposito della tesi prospettata in diverse note dei vari quaderni che nel periodo moderno della storia il materialismo storico è più diffuso di quanto non sembri; esso però si presenta sotto l’aspetto di «economismo storico» (il nuovo nome usato dal Loria per indicare le sue nebulose concezioni da questo punto di vista è esatto e si può dire che il materialismo storico che io ritengo più diffuso di quanto si creda, è d’interpretazione loriana e non è l’originale marxista). Questa interpretazione è legata all’errore di metodo, da me indicato più sopra, di non distinguere nell’analisi delle situazioni economiche e delle strutture sociali ciò che è «relativamente permanente» da ciò che è «fluttuazione occasionale»; distinzione che entro certi limiti corrisponde a quella di Stato e Governo, di strategia e tattica. Aspetti parziali dell’«economismo storico» sono: 1) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto ai cangiamenti degli strumenti tecnici, mentre Marx parla sempre di «forze materiali di produzione» in generale e in queste forze include anche la «forza fisica» degli uomini (Loria ha dato un’esposizione brillantissima di questa dottrina nell’articolo sull’influenza sociale dell’aeroplano nella «Rassegna contemporanea» del 1912); 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche fattore importante della produzione, dovuto all’introduzione di un nuovo combustibile che porta con sé l’applicazione di nuovi metodi nella costruzione e nell’azionamento degli strumenti meccanici (per esempio il petrolio: cfr. a questo proposito l’articolo sul petrolio di Antonino Laviosa nella «Nuova Antologia» del 1929 che nota i mutamenti nella costruzione dei mezzi di trasporto e specialmente militari portati dalla diffusione del petrolio e della benzina e ne trae delle conseguenze politiche esagerate: parla di un’era del petrolio che si contrappone a un’era del carbone ecc.; qualche altro avrà scritto lo stesso per l’elettricità ecc. Ora, anche queste scoperte di nuovi combustibili e di nuove energie motrici hanno importanza storica, perché possono mutare la statura relativa delle nazioni, ma non sono determinanti del moto storico). Spesso avviene che si combatte l’economismo storico credendo di combattere il materialismo storico. È questo il caso, per esempio, di un articolo dell’«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato nella «Rassegna settimanale della stampa estera» del 21 ottobre 1930, pp. 2303-4: «Ci si dice da molto tempo, ma soprattutto dopo la guerra, che le quistioni d’interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato questa tesi sotto l’appellativo un po’ dottrinario di “materialismo storico”. Nel marxismo puro, gli uomini presi in massa non obbediscono alle passioni, ma alle necessità economiche. La politica è una passione. La Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L’economia è tutto. Molti filosofi ed economisti “borghesi” hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucciù, la grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da questioni di tariffe doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge. Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza suprema. La passione in politica estera? Il sentimento in materia nazionale? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e dall’avere. Ora questa è una pseudo-verità assoluta. È completamente falso che i popoli non si lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente vero che essi obbediscono più che mai al sentimento. Il materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono soprattutto a delle condizioni dettate da un desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende questo non comprende nulla». La continuazione dell’articolo (intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e non dettata da interessi materiali. Il brano è interessante e andrebbe analizzato minutamente in caso di compilazione di un saggio; esso è contro l’«economismo storico» esagerato, di tipo loriano. L’autore non conosce la filosofia moderna e non capisce, d’altronde, che le «passioni», appunto, sono fatti economici.

Degenerato in economismo storico, il materialismo storico perde una gran parte della sua espansività culturale tra le persone intelligenti, per quanta ne acquista tra gli intellettuali pigri, tra quelli che vogliono apparire sempre furbissimi ecc.; esso, come scrisse Engels, fa credere a molti di poter avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia tutta la storia, e tutta la sapienza politica. Avendo dimenticato che la tesi di Marx – che gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie – ha un valore organico, è una tesi gnoseologica e non psicologica o morale, si è creata la forma mentis di considerare la politica e quindi tutta la storia come un marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazioni. Tutta l’attività culturale è ridotta così a «svelare» trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini politici. Naturalmente gli errori di interpretazione sono stati talvolta grossolani e hanno così reagito negativamente sul prestigio della dottrina originaria. Perciò occorre combattere contro l’economismo non solo nella scienza teoria della storiografia, ma anche nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la reazione deve essere condotta sul terreno del concetto di egemonia, così come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici.

Si potrebbe fare una ricerca storica sui giudizi emessi sullo sviluppo di certi movimenti politici, prendendo come archetipo quello detto boulangismo (dal 1886 al 1890 circa) ma forse addirittura il colpo di stato del 2 dicembre di Napoleone III. Si può trovare che il ragionamento stereotipato dell’economismo storico di solito è molto semplicistico: a chi giova immediatamente? A una certa frazione del raggruppamento dominante, che per non sbagliare si sceglie in quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva secondo una teoria generale. Come giudizio storico è quasi infallibile, poiché realmente se quel movimento politico andrà al potere la frazione progressiva del raggruppamento dominante in ultima analisi finirà col controllarlo e col farsene uno strumento per rivolgere a proprio beneficio l’apparato statale. Dico quasi infallibile a ragion veduta, perché l’interpretazione è solo un’ipotesi storica possibile e magari probabile che nel giudizio politico assume però una tinta moralistica. In ciò consiste l’errore teorico e pratico. Quando un tale movimento si forma l’analisi dovrebbe essere condotta secondo questa linea: 1°) contenuto sociale del movimento; 2°) rivendicazioni che i dirigenti pongono e che trovano consenso in determinati strati sociali; 3°) le esigenze obbiettive che tali rivendicazioni riflettono; 4°) esame della conformità dei mezzi adoperati al fine proposto; e 5°) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non in forma moralistica, presentazione dell’ipotesi che tale movimento necessariamente sarà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci credono. Invece quest’ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (dico che appaia tale con evidenza e non per un’analisi «scientifica» esoterica) esiste ancora per suffragarla, così che essa appare come un’accusa morale di doppiezza e di malafede ecc. o di poca furberia, di stupidaggine. La politica diventa una serie di fatti personali. Naturalmente finché questi movimenti non hanno raggiunto il potere, si può sempre pensare che essi falliscano e alcuni infatti sono falliti (il boulangismo stesso – Valois-Gayda): la ricerca allora deve dirigersi alla ricerca degli elementi di forza e degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l’ipotesi «economistica» afferma un elemento di forza, la disponibilità di un certo aiuto finanziario diretto o indiretto (un giornale che appoggi il movimento è un aiuto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco. La ricerca quindi, come ho detto, dev’essere fatta nella sfera del concetto di egemonia.

Questo concetto, data l’affermazione fatta più sopra, che l’affermazione di Marx che gli uomini prendono coscienza dei conflitti economici nel terreno delle ideologie ha un valore gnoseologico e non psicologico e morale, avrebbe anch’esso pertanto un valore gnoseologico e sarebbe da ritenere perciò l’apporto massimo di Iliíč alla filosofia marxista, al materialismo storico, apporto originale e creatore. Da questo punto di vista Iliíč avrebbe fatto progredire il marxismo non solo nella teoria politica e nella economia, ma anche nella filosofia (cioè avendo fatto progredire la dottrina politica avrebbe fatto progredire anche la filosofia).