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Trascrizione

§ Il principio educativo nella scuola elementare e media. La frattura introdotta ufficialmente nel principio educativo tra la scuola elementare e media e quella superiore. Prima una frattura del genere esisteva solo in modo molto marcato tra la scuola professionale e la scuola media e superiore. La scuola elementare era posta in una specie di limbo, per alcuni suoi caratteri particolari.

Nella scuola elementare due elementi si prestavano all’educazione dei bambini: le nozioni di scienza e i diritti e doveri del cittadino. La «scienza» doveva servire a introdurre il bambino nella «societas rerum», i diritti e doveri nella «società degli uomini». La «scienza» entrava in lotta con la concezione «magica» del mondo e della natura che il bambino assorbe dall’ambiente «impregnato» dal folklore: l’insegnamento è una lotta contro il folklore, per una concezione realistica in cui si uniscono due elementi: la concezione di legge naturale e quella di partecipazione attiva dell’uomo alla vita della natura, cioè alla sua trasformazione secondo un fine che è la vita sociale degli uomini. Questa concezione si unifica cioè nel lavoro, che si basa sulla conoscenza oggettiva ed esatta delle leggi naturali per la creazione della società degli uomini. L’educazione elementare si impernia in ultima analisi nel concetto e nel fatto del lavoro, poiché l’ordine sociale (insieme dei diritti e doveri) è dal lavoro innestato nell’ordine naturale. Il concetto dell’equilibrio tra ordine sociale e ordine naturale sulla base del lavoro, dell’attività pratica dell’uomo crea la visione del mondo elementare, liberata da ogni magia e da ogni stregoneria e dà l’appiglio allo sviluppo ulteriore in una concezione storica, di movimento, del mondo. Non è completamente esatto che l’istruzione non sia anche educazione: l’aver insistito troppo in questa distinzione è stato un grave errore e se ne vedranno gli effetti. Perché l’istruzione non fosse anche educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, ciò che è assurdo in sé anche se proprio viene negato dai sostenitori ad oltranza della pura educatività contro la mera istruzione meccanica. La verità è che il nesso istruzione-educazione è rappresentato dal lavoro vivente del maestro in quanto la scuola è acceleramento e disciplinamento della formazione del fanciullo. Se il corpo magistrale è deficiente sarà la sua opera ancora più deficiente se gli si domanderà più educazione: farà una scuola retorica, non seria. Ciò si vede ancor meglio nella scuola media, per i corsi di letteratura e di filosofia. Prima gli allievi, per lo meno, lasciavano la scuola con un certo bagaglio di nozioni storiche concrete: ora che il professore dovrebbe essere un filosofo e un esteta, gli allievi trascurano le nozioni concrete e si riempiono la testa di parole senza senso, subito dimenticate. La lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma si trattava di una quistione di uomini più che di programmi. In realtà un mediocre insegnante può riuscire a ottenere che gli allievi diventino più istruiti, non riuscirà mai a ottenere che siano più colti: la parte meccanica della scuola egli la svolgerà con scrupolo e coscienza, e l’allievo, se è un cervello attivo, ordinerà per conto suo il «bagaglio». Coi nuovi programmi, che coincidono con un abbassamento di livello del corpo insegnante, non si avrà «bagaglio» e non ci sarà niente da ordinare. I nuovi programmi avrebbero dovuto abolire completamente gli esami: dare un esame adesso dev’essere terribilmente più «giuoco d’azzardo» di una volta. Bene o male, una data è sempre una data, qualsiasi professore esamini, e una definizione è sempre una definizione. Ma un giudizio, un’analisi estetica o filosofica?

Secondo me l’efficacia educativa della vecchia scuola media italiana secondo la vecchia legge Casati, era dovuta all’insieme del suo organamento e dei suoi programmi più che a una volontà espressa di essere scuola «educativa». In questa quistione mi pare che si possa dire ciò che il Carducci diceva della quistione della lingua: gli italiani, invece di parlare, si guardano la lingua. Nella scuola ciò si capisce pensando alla attività dell’allievo. I nuovi programmi, quanto più, nei teorici che li hanno preparati e li difendono, affermano e teorizzano l’attività del discente e la sua collaborazione attiva col docente, in realtà tanto più operano come se il discente fosse una mera passività. Nella vecchia scuola dunque, l’organamento stesso dava l’educazione. Come? Lo studio del latino e del greco, delle lingue, con lo studio delle letterature e delle storie politiche rispettive, era alla base di questa educatività. Il carattere di educatività era dato dal fatto che queste nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico-professionale: lo scopo c’era, ma era la formazione culturale dell’uomo, e non si può negare che esso sia un «interesse». Ma lo studio in sé apparisce disinteressato. Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e di aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare di lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno. (Si potrà migliorare molto, indubbiamente, ma su questa base).

Si impara il latino, lo si analizza nei suoi membretti più elementari, si analizza come una cosa morta, è vero, ma ogni analisi fatta da un bambino non può essere che su una cosa morta; d’altronde non bisogna dimenticare che dove questo studio avviene, in queste forme, la vita dei Romani è un mito che in una certa misura ha già interessato il bambino o lo interessa ora. La lingua è morta, è anatomizzata come un cadavere, è vero, ma il cadavere rivive continuamente negli esempi, nelle narrazioni. Si potrebbe fare lo stesso con l’italiano? Impossibile. Nessuna lingua viva potrebbe essere studiata come il latino: sarebbe o sembrerebbe assurdo. Nessuno dei ragazzi conosce il latino quando ne inizia lo studio con quel tal metodo analitico. Una lingua viva potrebbe essere conosciuta e basterebbe che un ragazzo la conoscesse, per rompere l’incanto: tutti andrebbero alla scuola Berlitz, immediatamente. Il latino e il greco si presentano alla fantasia come un mito, anche per l’insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Negli otto anni di latino si studia tutta la lingua, da Fedro ad Ennio e a Lattanzio: un fenomeno storico è analizzato dalle sue origini alla sua morte nel tempo. Si studia la grammatica di un tempo, il vocabolario di un periodo determinato, di un autore determinato, e poi si scopre che la grammatica di Fedro non è quella di Cicerone, non è quella di Plauto ecc., che uno stesso nesso di suoni non ha lo stesso significato nei diversi tempi, nei diversi scrittori. Si paragona continuamente l’italiano e il latino: ma ogni parola è un concetto, un’immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, nelle due lingue comparate. Si studia la storia letteraria, la storia dei libri scritti in quella lingua, la storia politica, le gesta degli uomini che parlavano quella lingua. È questo complesso organico che determina l’educazione del giovinetto, il fatto che anche solo materialmente ha percorso tutto quell’itinerario, con quelle tappe, ecc. ecc. Questo studio educava senza averne la volontà espressamente dichiarata, anche col minimo intervento dell’insegnante. Esperienze logiche, psicologiche, artistiche, ecc. erano fatte senza riflettervi su, ma era fatta specialmente una grande esperienza storica, di sviluppo storico.

Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola «formativa» immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come «democratica», mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Come si spiega questo paradosso? Dipende, mi pare, da un errore di prospettiva storica tra quantità e qualità. La scuola tradizionale è stata «oligarchica» perché frequentata solo dai figli della classe superiore destinati a diventare dirigenti: ma non era «oligarchica» per il modo del suo insegnamento. Non è l’acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini superiori che dà carattere sociale a un tipo di scuola. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della loro sua tendenza democratica. Manovale e operaio qualificato per esempio. Contadino e geometra o piccolo agronomo, ecc. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone sia pure «astrattamente» nelle condizioni generali di poterlo diventare: la «democrazia politica» tende a far coincidere governanti e governati, assicurando a ogni governato l’apprendimento più o meno gratuito della preparazione «tecnica» generale necessaria. Ma nella realtà, il tipo di scuola praticamente imperante, mostra che si tratta di un’illusione verbale. La scuola va organizzandosi sempre più in modo da restringere la base della classe governativa tecnicamente preparata, cioè con una preparazione universale storico-critica.

Dogmatismo e criticismo-storico nella scuola elementare e media: la nuova pedagogia ha voluto battere in breccia il dogmatismo scolastico nel campo dell’«istruzione», cioè dell’apprendimento delle nozioni concrete, proprio nel campo in cui un certo dogmatismo è imprescindibile praticamente e può venir assorbito e disciolto solo nel ciclo intero del corso scolastico (non si può insegnare la grammatica storica in prima ginnasiale), è costretta poi a veder introdotto il dogmatismo per eccellenza nel campo del pensiero religioso e a veder descritta tutta la storia della filosofia come una successione di follie e di delirii.

Insegnamento della filosofia: credo che nelle scuole medie il nuovo metodo impoverisca la scuola e ne abbassi il livello, praticamente (razionalmente il nuovo metodo è bellissimo e giustissimo, ma praticamente con la scuola così com’è, è una bellissima e razionalissima utopia). La filosofia «descrittiva» tradizionale, rafforzata da un corso di storia della filosofia e dalla lettura in casa di certi autori, mi pare la cosa migliore. Ma la filosofia «descrittiva e definitrice» è un’astrazione! Sarà un’astrazione, come la grammatica e la matematica, ma è necessaria. Uno uguale uno è un’astrazione, ma nessuno è condotto a pensare che una mosca è uguale a un elefante. Anche gli strumenti logici sono astrazioni dello stesso genere, sono come la grammatica del pensare normale: e non sono innati, ma acquisiti storicamente. Il nuovo metodo li presuppone acquisiti e siccome ha come fine la educazione dei ragazzi, in cui non possono pensarsi acquisiti, è come se li pensasse innati. La logica formale è come la grammatica: essa viene assimilata in modo «vivente», anche se è necessariamente appresa schematicamente: il discente non è un disco di grammofono, non è un recipiente passivo. Così il ragazzo che si arrabbatta coi barbara, báràlipton, ecc. Si affatica, è certo, e bisogna trovare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più. Ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare e costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè a un tirocinio psico-fisico. Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Anche il regime dei cibi ha un’importanza, ecc. ecc.

Ecco perché molti del «popolo» pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno; vedono il signore (per molti, nelle campagne specialmente, «signore» vuol dire «intellettuale») compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.